Etica ed economia nel pensiero scolastico

aprile 19, 2010

Può essere di qualche utilità ai giorni nostri dedicare una nota a un tema che può apparire di interesse prettamente storico quale l’etica economica elaborata durante il Medioevo?
In un momento storico contrassegnato da un forte dibattito sui rapporti fra etica ed economia, credo che sarebbe utile studiare con attenzione le soluzioni prospettate dagli scolastici poiché ben pochi o addirittura quasi nessun filosofo dopo di loro ha più tentato di proporre l’idea secondo la quale sono i principi morali e non il desiderio di lucro fine a se stesso a dover guidare i processi economici.
Indicativo di un atteggiamento dominante nella modernità è il celebre “Fable of the Bees: or, Private Vices, Publick Benefits” di Mandeville in cui è espressa la celebre tesi per cui “il vizio è tanto necessario in uno stato fiorente quanto la fame è necessaria per obbligarci a mangiare. È impossibile che la virtù da sola renda mai una nazione celebre e gloriosa”.
E’ il vizio che stimola e promuove per Mandeville l’attività economica e senza vizi uno stato è inevitabilmente condannato alla povertà e alla miseria.
Ci si potrebbe chiedere se il benessere ottenuto dal soddisfacimento dei propri vizi sia stabile e soprattutto se sia capace di creare le condizioni per lo sviluppo morale e intellettuale della persona ma forse la domanda è ancora più semplice: siamo sicuri che solo il vizio possa promuovere l’attività economica?
Una seria riflessione morale non può accettare che esistano “zone franche” della realtà in cui non esistono doveri morali,salvo inficiare l’universalità di cui si fa vanto e non può nemmeno commettere il banalissimo errore di confondere piano normativo e piano descrittivo tentando di ricavare leggi normative dalla contingenza dei fenomeni sociali,economici,religiosi o addirittura dal proprio interesse personale.
Questa esposizione non vuole sostenere né che l’etica economica medioevale sia stata una risposta “perfetta” alle problematiche economiche sorte nel basso medioevo né che essa possa costituire un modello valido per la nostra economia,le cui strutture sono ormai totalmente differenti da quelle basso medioevali ma più semplicemente si ritiene che diversi principi morali ,di cui si serviva questa etica applicata ,possano essere applicati analogicamente anche nel contesto attuale.
Compito sicuramente complesso e difficile ma non impossibile se si è capaci di tenersi lontani sia dall’univocità(i principi si applicano allo stesso modo in ogni contesto) sia dall’equivocità(i principi ,pur rimanendo nominalmente gli stessi ,variano a seconda del contesto) e imboccare la via dell’analogia: i principi non variano ma si applicano con modi essenzialmente diversi.
Ma forse ora è meglio iniziare l’esposizione; ciò che vi è di vivo in essa e ciò che vi è di irrimediabilmente morto emergerà chiaramente nel corso di essa.
Per iniziare bisogna ripetere che il pensiero economico medioevale per la sua necessità di far procedere la vita sociale in armonia agli imperativi etici e alla legge naturale è classificato come “volontarista” cioè rivolto a porre un sistema di norme che siano capaci di guidare l’uomo verso il Bene che in questa etica “teologica” è Dio.
E’ una prospettiva molto diversa dalle dottrine di sei – settecento secondo le quali l’ordine e l’equilibrio sarebbero intrinseci al sistema economico e l’unico ostacolo al perseguimento di questo equilibrio consisterebbe nell’intervento pubblico qualificato come dannoso.
E’ una prospettiva naturalistica che non può che suonare incomprensibile a un medioevale il cui principale obiettivo non era il proprio benessere e della società quanto piuttosto la salvezza della propria anima e di quella degli altri uomini.
Una tale prospettiva emerge già nella Città di Dio di Agostino:
“Ma simili adoratori e amatori di questi dèi, che si vantano anche di imitare nei delitti e azioni infami, non si preoccupano affatto che la società sia corrotta e depravata. Basta che si regga, dicono, basta che prosperi colma di ricchezze, gloriosa delle vittorie ovvero, che è preferibile, tranquilla nella pace. E a noi che ce ne importa?, dicono. Anzi ci riguarda piuttosto se aumentano sempre le ricchezze che sopperiscono agli sperperi continui e per cui il potente può asservirsi i deboli. (…)I cittadini acclamino non coloro che curano i loro interessi ma coloro che favoriscono i piaceri. Non si comandino cose difficili, non sia proibita la disonestà. I governanti non badino se i sudditi sono buoni ma se sono soggetti. Le province obbediscano ai governanti non come a difensori della moralità ma come a dominatori dello Stato e garanti dei godimenti e non li onorino con sincerità, ma li temano da servi sleali. Si noti nelle leggi piuttosto il danno che si apporta alla vigna altrui che alla propria vita morale. Sia condotto in giudizio soltanto chi ha infastidito o danneggiato la roba d’altri, la casa, la salute o un terzo non consenziente, ma per il resto si faccia pure dei suoi, con i suoi o con altri consenzienti ciò che piace. Ci siano in abbondanza pubbliche prostitute o per tutti coloro che ne vogliono usare ma principalmente per quelli che non si possono permettere di averne delle proprie. Si costruiscano case spaziose e sontuose, si tengano spesso splendidi banchetti, in cui, secondo il piacere e le possibilità di ciascuno, di giorno e di notte si scherzi, si beva, si vomiti, si marcisca. Strepitino da ogni parte i ballabili, i teatri ribollano di grida di gioia malsana e di ogni tipo di piacere crudele e depravante. Sia considerato pubblico nemico colui al quale questo benessere non va a genio. La massa sia libera di non far parlare, di esiliare, di ammazzare l’individuo che tenti di riformare o abolire questo benessere. Siano considerati veri dèi coloro che hanno concesso ai cittadini di raggiungerlo e una volta raggiunto di conservarlo. Siano adorati come vorranno, chiedano gli spettacoli che vorranno e che possano avere assieme o mediante i loro adoratori; concedano soltanto che per tale benessere non si debba temer nulla dal nemico, dalla peste, dalla sventura”.
Una società del genere in cui l’immoralità produce benessere e il benessere immoralità poteva apparire appettibile a Mandeville ma per un medioevale, ancora di più se lettore di Sallustio e di altri moralisti latini, un tale sistema economico non poteva che apparire mortifero spiritualmente.
E’ la Chiesa nel Medioevo a regolare dal punto di vista morale le attività economiche per mezzo del diritto canonico e a guidare l’individuo per mezzo di una minuziosa casistica che penetra ogni aspetto del processo economico e sociale e realizza un sistema compatto e ordinato di precetti morali che avvolge e norma l’intera struttura economica.
Questa precettistica, pur nell’astrattezza dei principi teorici,non è statica ma bensì dinamica e flessibile da due prospettive diverse ma che si completano a vicenda:da una parte il mutare delle condizioni economiche porta a tentare sintesi più adeguate al mutato contesto, dall’altra l’approfondimento e lo studio degli autori classici porta ad una maggiore rigore e precisione delle tesi affermate.
Un giudizio etico su determinate pratiche e fenomeni economici non può che comportare anche uno studio dei processi economici in sé ,cioè uno studio dell’economia come settore scientifico definito e distinto, anche se questo studio non è mai fine a se stesso ma al contrario la conoscenza dell’economia è in funzione della definizione di una morale del bene collettivo.
Altra caratteristica dell’etica economica medioevale è la ricerca del giusto mezzo, della moderazione, della misura: si lavora, ci si applica, ci si preoccupa ma solo per quanto è necessario al soddisfacimento dei propri bisogni, bisogni che sono determinati dalla propria condizione sociale.
Ogni ansietà, ogni attaccamento, ogni desiderio di guadagno che supera i propri bisogni vitali è da condannare, come afferma il Roman de la Rose “Chi non pretende nulla purché abbia da vivere un giorno dopo l’altro ,si accontenta del suo guadagno e non pensa che gli manchi qualcosa. Il giusto mezzo ha nome sufficienza;ivi si trova l’abbondanza della virtù”.
Questo distacco dai beni esteriori, già presente nello stoicismo, si salda perfettamente con l’abbandono evangelico alla Provvidenza: “Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena”.
Per quanto riguarda gli autori di riferimento, sia i canonisti che i teologi affrontano questioni di carattere economico:i primi essenzialmente dal punto di vista giuridico, i secondi dal punto di vista filosofico e teologico :fra i primi si ricorda Sinibaldo Fieschi ,Enrico di Susa e il cardinale Ostinense fra i secondi nel secolo XIII Alberto Magno,Bonaventura Tommaso D’Aquino,nel XIV secolo Egidio Colonna Nicola Oresme e Buridano e nel XV secolo Gerson ,Bernardino da Siena e Antonino da Firenze.
Altre riflessioni sul comportamento economico si trovano nei cronisti come Dino Compagni o anche in veri e propri letterati come Dante,Chaucer e Boccaccio o nei giuristi come Baldo degli Ubaldi.
Il primo grande tema che si prenderà in esame è quello del lavoro.
Il lavoro nel pensiero medioevale è un dovere etico valevole per tutti gli individui e alla cui obbligatorietà non è lecito per alcuno sottrarsi;”Chi non lavora,non mangia” aveva minacciato non a caso San Paolo.
Il pericolo da cui il lavoro deve tenere lontani è l’ozio perché l’ozio porta al peccato e il peccato alla morte eterna.
“ L’ozio è nemico dell’anima, perciò i monaci devono dedicarsi al lavoro in determinate ore e in altre, pure prestabilite, allo studio della parola di Dio” recita la Regola benedettina.
Isidoro di Siviglia auspica una società fondata sul lavoro da contrapporre alle speculazioni commerciali e al potere dell’oro che permette soprusi a danno dei poveri.
Rabano Mauro propone come soluzione del problema economico,l’attività lavorativa e la spartizione con i poveri delle proprie entrate.
Bernardo e Pier Damiani richiamano il dovere del lavoro come arma contro l’ozio che minaccia la salute dell’anima mentre Francesco da Assisi lascia fra le sue ultime volontà una ferma richiesta che i suoi frati si applichino al lavoro.
Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae illustra le finalità del lavoro con la chiarezza tipica del suo stile:
– assicurarsi il vitto;
– combattere l’ozio “da cui nascono tanti mali”;
– frenare la concupiscenza in quanto il lavoro mortifica il corpo;
– donare una parte di ciò che si è guadagnato come elemosina.
Poiché “è ordinato ad assicurare il vitto, il lavoro manuale ha necessità di precetto nella misura in cui è necessario a questo fine: infatti ciò che è ordinato a un fine prende da questo la sua necessità, essendo necessario nella misura richiesta dal fine stesso. Perciò chi non ha altro mezzo per poter vivere, qualunque sia la sua condizione, è tenuto al lavoro manuale”.
Per Tommaso il lavoro non è solo quello manuale in senso stretto infatti “per lavoro manuale si intende qualsiasi lavoro con il quale uno può guadagnarsi lecitamente da vivere”quindi anche il lavoro intellettuale e spirituale.
Il lavoro ha inoltre un valore terapeutico: Bernardino osserva che un’occupazione non eccessiva rappresenti un bene per il corpo oltre che per l’anima, infatti, tramite quest’attività,il corpo si libera da numerose infermità ,può essere fornito del necessario per vivere e viene distolto dall’ozio e dai vizi.
Tema più delicato è quello del lavoro servile dove sono presenti una molteplicità di opinioni: dalla piena accettazione sulla linea della Politica di Aristotele alla violenta contestazione di questo istituto da parte dei Lollardi(contestazione che per il suo carattere rivoluzionario sarà duramente repressa dalla Chiesa e dalle autorità secolari).
Tommaso cerca di mediare fra i due estremi pur mantenendosi nella linea aristotelica ,sia pure posta su fondamenti “etici”:” considerando le cose per se stesse non esiste una ragione naturale per cui un dato uomo debba essere schiavo e non invece un altro, ma ciò deriva solo da un vantaggio conseguente, cioè dal fatto che è utile per costui essere governato da un uomo più saggio, e per quest‘ultimo essere da lui aiutato”.
Anche nella schiavitù l’uomo non perde tuttavia la sua libertà spirituale:” Sbaglia chi pensa che il dominio sullo schiavo abbracci tutto l‘uomo. La sua parte più nobile ne è eccettuata. Ai padroni sono sottoposti e assegnati i corpi, ma l‘anima è libera”(Tommaso in questo caso cita Seneca) né la schiavitù può derogare al diritto naturale che comprende anche la libertà di contrarre matrimonio:“come l‘appetito naturale spinge alla conservazione dell‘individuo, così spinge alla conservazione della specie mediante la generazione. Come dunque lo schiavo sottostà al padrone potendo liberamente mangiare, dormire e compiere altre simili cose che riguardano le sue necessità corporali, senza di che non si può conservare la natura, così non deve sottostare ad esso al punto di non poter contrarre liberamente il matrimonio, anche all‘insaputa o contro la volontà del padrone”.
Benché mai formalmente messa in discussione dal magistero,se non con le scoperte geografiche del XVI secolo, poiché ritenuta un effetto della caduta adamitica .la schiavitù scompare a poco a poco nel corso dell’Alto Medioevo sia per motivazioni economiche sia per la sempre più forte penetrazione del Cristianesimo nella società che, nonostante condanni gli schiavi che si rivoltano e non metta mai in discussione l’istituto stesso ,incentiva in ogni modo e con ogni mezzo la liberazione degli schiavi in nome dell’uguaglianza e della fraternità evangelica e condanna ogni atto di violenza compiuto dai padroni.
Importante distinzione per i teologi medioevali è poi quella fra artes possessivae e artes pecuniniativae, le prime riguardano la produzione di beni di consumo volti al soddisfacimento di esigenze vitali che si svolgono armonicamente secondo natura e sono le più auspicabili come l’agricoltura e l’industria, le seconde invece riguardano l’ambito commerciale e pur non essendo illecite, necessitano di certe cautele affinché possano espletarsi in modo non peccaminoso e possano contribuire al bene della comunità.
La giustificazione scolastica della divisione del lavoro è molto diversa da quella che sarà sostenuta da Smith con il celebre esempio della fabbricazione dello spillo: essa è giustificata non tanto quanto mezzo per l’aumento della produttività ma in quanto dovere sociale e aderenza al piano divino:ogni uomo infatti deve seguire e coltivare la propria inclinazione che gli è stata data dalla Provvidenza perché solo così potrà costituirsi e prosperare la società che per sussistere deve essere composta da una pluralità di professioni e mestieri.
Questione più complessa è quella della remunerazione del lavoro poiché si lega anche alla questione del giusto prezzo ,la precisazione del quale costituisce uno dei maggiori travagli per la scolastica.
Intanto il salario si può definire per gli scolastici come il prezzo di un lavoro:” come quindi pagare il giusto prezzo per un acquisto è un atto di giustizia, così è un atto di giustizia pagare la mercede per una prestazione, o per un lavoro”.
Altra caratteristica del giusto salario è di essere in grado di soddisfare le necessità del lavoratore e della sua famiglia in rapporto al tenore di vita e alla classe sociale cui appartiene.
In base a queste premesse i teologi morali stabiliscono tutta una serie di precetti al fine di difendere i lavoratori da possibili soprusi ad opera dell’imprenditori come vietare dilazioni nei pagamenti o di pagare con monete false o in natura con merci per lo più scadenti o l’ agganciare il dipendente con prestiti e nello stesso tempo ottenere dalla corporazione il divieto di assumere operai indebitati in modo tale da costringerlo ad accettare retribuzioni inadeguate.
Quanto ai doveri dei lavoratori l’operaio è tenuto all’espletamento coscienzioso del suo lavoro ;se per colpa sua la merce viene danneggiata egli è tenuto a risarcire il padrone anche qualora il risarcimento faccia scendere la retribuzione al di sotto di quanto stabilito dal contratto.
Il lavoro inoltre se vuole portare beneficio all’anima non deve essere eccessivo,superare certi limiti per esempio per arricchirsi conduce alla dannazione.
Altra questione discussa è l’esercizio delle professioni liberali come ad esempio gli avvocati: in risposta a coloro che affermano che non sia lecito per un avvocato farsi pagare perché non bisogna fare opere di misericordia al fine di una retribuzione ,Tommaso replica “uno può giustamente ricevere un compenso per i servizi che non è tenuto a rendere agli altri. Ora, è evidente che un avvocato non è sempre tenuto a prestare il suo patrocinio e il suo consiglio nelle cause altrui. Se quindi vende il suo patrocinio o il suo consiglio non agisce contro la giustizia. E lo stesso si dica del medico che si prende cura di un malato, e di tutti gli altri professionisti di questo genere: purché la retribuzione sia moderata in rapporto alla condizione delle persone, degli affari, della fatica impiegata e delle consuetudini del luogo”.
Se tutto ciò che si può fare per misericordia ,lo si dovesse sempre fare gratuitamente ,non si potrebbe mai vendere nulla e non si avrebbe mai alcun guadagno.
Il patrocinio dovrà essere gratuito se l’assistito è povero, ma nelle altre circostanze l’avvocato esercita un mestiere come l’operaio e ugualmente gli spetta una ricompensa.
E’ vietato comunque all’avvocato ricorrere ad artefici per mandare per le lunghe il processo allo scopo di maggior lucro.
Altra tematica lungamente dibattuta dagli scolastici è quella della proprietà,si tralasceranno le posizioni dei Padri della Chiesa per non appesantire eccessivamente l’esposizione le quali pur dividendosi in due fronti (da una parte coloro che ritengono che solo spogliandosi dei propri beni e donandoli ai poveri ci si possa salvare e dall’altra coloro che non ritengono la ricchezza un male in sé bensì l’uso egoistico di essa)sono concordi nel rifiutare soluzioni violente quanto piuttosto a preferire ridistribuzioni volontarie.
I toni sono comunque sempre durissimi nel denunciare le ingiustizie sociali si veda fra tutti l’eroico impegno a favore dei poveri di Ambrogio.
Passando alla scolastica si attenuano attacchi contro la proprietà privata che ormai è riconosciuta come male necessario, data l’imperfezione umana,per la sopravvivenza della società anche se sullo sfondo ovviamente rimane la vita monastica contrassegnata da una radicale scelta di povertà e dalla vita comunitaria come modello di perfezione.
Ormai gli attacchi indiscriminati al diritto di proprietà viste le condizioni economiche profondamente,sono abbandonati come anacronistici.
Guglielmo di Auxerre afferma “l’affermazione tutti i beni sono in comune fa parte delle dimostrazioni poiché non costituì un precetto di diritto naturale simpliciter ma secundum quid. Essa costituì un precetto nello stato di innocenza ossia nello stato in cui la natura era ben ordinata. Ma nello stato di cupidigia non è e non deve essere un precetto. Se lo fosse,lo Stato si dissolverebbe e gli uomini si distruggerebbero con reciproca strage”.
La definitiva e “canonica “ dottrina scolastica sulla proprietà si ha in Tommaso .
Le cose esterne,quanto alla loro natura,non sono proprietà dell’uomo ma di Dio solo,quanto invece, nell‘uso che di esse si può fare, “l‘uomo ha il dominio naturale sulle cose esterne: poiché egli può usarne a proprio vantaggio mediante l‘intelletto e la volontà, considerandole come fatte per sé”.
Del resto è Dio che ha voluto che certi beni fossero destinati a sostegno della vita delle creature.
Quanto alla domanda se l’uomo possa possedere qualcosa in proprio,Tommaso distingue fra amministrazione e uso:
-dal lato della facoltà di procurarsi e amministrare è lecito all’uomo possedere beni propri anzi è necessario per tre motivi , primo “perché ciascuno è più sollecito nel procurare ciò che appartiene a lui esclusivamente che non quanto appartiene a tutti”,secondo perché “perché le cose umane si svolgono con più ordine se ciascuno ha il compito di provvedere a una certa cosa mediante la propria cura personale” e terzo perché “così è più garantita la pace tra gli uomini, accontentandosi ciascuno delle sue cose. Infatti vediamo che tra coloro che possiedono qualcosa in comune spesso nascono contese”.
dal lato dell’uso invece “l‘uomo non deve considerare le cose come esclusivamente proprie, ma come comuni: in modo cioè da metterle facilmente a disposizione nelle altrui necessità”.
La proprietà pur non essendo prevista dal diritto naturale è “un suo sviluppo dovuto alla ragione umana” e la distinzione delle proprietà per il suo carattere “positivo” deve essere stabilita per convenzione.
Non pecca il ricco inoltre ,se impossessandosi per primo del bene che era in comune, ne fa partecipi gli altri; pecca invece se ne impedisce l‘uso agli altri.
La proprietà per Tommaso non ha niente di assoluto come invece era nel diritto romano in quanto è prevalente in essa la destinazione a vantaggio dell’intera comunità.
L’arricchimento non è escluso ma deve essere in funzione di un maggiore intervento sociale ,è un mezzo,non un fine.
Quanto al furto, in quanto appropriazione della roba altrui esso, non solo è immorale ma costituisce addirittura peccato mortale: “un peccato è mortale se è incompatibile con la carità, da cui dipende la vita dell‘anima. Ora la carità consiste principalmente nell‘amore di Dio e secondariamente nell‘amore del prossimo, il quale esige che al prossimo si voglia e si faccia del bene. Nel furto invece si danneggia il prossimo nei suoi beni; e se gli uomini con frequenza si derubassero a vicenda verrebbe distrutta la convivenza umana”.
Esiste un caso specifico in cui però l’appropriarsi di beni altrui non costituisce peccato ;è il caso della necessità.
Tommaso afferma ancora una volta che il diritto positivo che istituisce la proprietà non può derogare al diritto naturale che prescrive di provvedere con i beni esterni alle necessità di tutti gli uomini e di conseguenza è doveroso servirsi delle cose che uno ha in sovrappiù per soccorrere i poveri.
Ma “siccome però sono molte le persone in necessità, e non è possibile soccorrere tutti con una medesima fortuna personale, è lasciata all‘arbitrio di ognuno l‘amministrazione dei propri beni, per soccorrere con essi chi è in necessità.”
Ma nel caso in cui la necessità sia così urgente ed evidente da esigere il soccorso immediato con le cose che si hanno a portata di mano “allora uno può soddisfare il suo bisogno con la manomissione, sia aperta che occulta, della roba altrui”.
Per chiarire ulteriormente il concetto di finalità sociale della proprietà sarà opportuno esaminare ciò che Tommaso dice dell’elemosina corporale.
Intanto per elemosina corporale si intende “dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi, alloggiare i pellegrini, visitare gli infermi, riscattare i prigionieri e seppellire i morti”e ciò che è dato in elemosina deve essere il superfluo.
Ma che cosa si intende per superfluo? “Non solo ciò che è tale in rapporto a lui stesso, cioè che eccede le sue necessità individuali, ma che è tale anche in rapporto alle persone affidate alle sue cure.”
Chi invece riceve l’elemosina ,deve essere in necessità “altrimenti non avrebbe ragione di esigere l‘elemosina”.
Nel donare in elemosina bisogna preferire “chi è molto più santo, o si trova in maggiore bisogno, o è più utile al bene comune”.
Non tutte le elemosine sono strettamente doverose cioè “di precetto “ “ma soltanto quella che se non è soddisfatta lascia l‘indigente in condizione di non potersi sostentare”.
Tommaso si pone una domanda ancora più “stringente” se sia lecito fare l’elemosina con il necessario.
Vengono date due risposte:
-se per necessario si intende “un bene senza di cui un dato essere non può sussistere”l’,elemosina equivale ad un suicidio ed è quindi assolutamente vietata;
-se per necessario si intende “nel senso che senza di esso non è possibile vivere secondo la condizione o lo stato della propria persona, o delle persone affidate alle proprie cure”,la questione è più complessa in quanto” i limiti di questo necessario non sono qualcosa di rigidamente definito” e pur non essendo di precetto è consigliato fare elemosina con questi beni purché non si finisca a vivere in maniera indecorosa.
Ma esistono anche qui delle eccezioni,nel primo caso chi prende i voti poiché “elargendo tutto per amore di Cristo uno compie un‘opera di perfezione”,nel secondo caso se sono beni che possono essere recuperati facilmente e infine in caso di necessità estrema di una persona privata o dello Stato.
Ma è lecito fare l’elemosina con beni illegalmente acquisiti?
Tommaso risponde ovviamente di no ,non si possono certo donare beni altrui senza il consenso del proprietario derubato,l’unico dovere in questo caso è la restituzione al legittimo proprietario.
Esiste un caso ancora più complesso cioè nel caso in cui chi ha acquistata un bene,lo possiede ingiustamente e tuttavia esso non è dovuta a chi l‘ha concesso, in quanto l‘uno l‘ha ricevuto e l‘altro l‘ha dato contro giustizia.E’ il caso della simonia.
In questo caso non essendo lecita la restituzione,questi beni vanno dati in elemosina.
Chi è a capo di determinate cose è tenuto ad essere sollecito verso esse ma con dei limiti ,tali premure possono diventare illecite se si ricercano le cose come fini,se si pone troppa cura nel conseguire beni materiali dimenticando quelli spirituali e per la preoccupazione che venga a mancare il necessario disperando così della provvidenza divina.
L’uomo deve rivolgere le sue cure verso i beni spirituali perché gli altri verranno in aggiunta ;si lavori per soddisfare i propri bisogni ma con moderata preoccupazione e senza ansia.
Affannarsi dice Bernardino per guadagnare salvo che “per li povari” è immorale.
Siamo lontanissimi da Bracciolini che nel 400 esalterà nel De avaritia la brama di denaro e la sua utilità sociale.
Nessuna azione inoltre è virtuosa se non si presenta rivestita di tutte le debite circostanze fra cui il tempo poiché ad ogni tempo corrisponde la sua preoccupazione:non ha senso essere in pena in estate per la vendemmia.
Bisogna fuggire le preoccupazioni ingiustificate ma senza per questo essere imprudenti.
Un’altra variabile di questa sollecitudine è lo specifico livello sociale dell’individuo cioè capire quali beni sono necessari per vivere in modo conveniente al proprio stato sociale.
Così in un senso si convalidano le diseguaglianze sociali anche se gli scolastici non amano i divari eccessivi e palesano volentieri la loro avversione per il latifondo.
Chi intende fare una scalata sociale per Enrico di Langenstein è spinto da avarizia,sensualità e orgoglio poiché bisogna accontentarsi di quello che si ha.
Di fronte al sorgere di una classe borghese ambiziosa e ricca,Bernardino chiede che le ricchezze accumulate prendano la via del commercio piuttosto che quello del lusso e della tesaurizzazione ,almeno così potranno giovare alla comunità mentre Antonino ,mantenendosi sulla linea tomista non ammette una disponibilità di beni oltre quella richiesta dalle necessità attuali e quella prevedibile in futuro e chiede che ciò che è di più vada ai poveri.
Il mondo classico ha sempre visto con una certa ostilità il mondo dei mercanti, pur dovendo ammettere la loro necessità vista da diversità di risorse fra i vari paesi ,per il loro influsso corruttore sui costumi.
Il mondo medioevale eredita questo scetticismo verso la “mercatura” anche se presto viene superato.
Anche qui è fondamentale la riflessione dell’Aquinate che si articola in quattro articoli della Questione 77.
La prima questione da affrontare è se sia lecito vendere una cosa per più di quanto vale;Tommaso risponde negativamente in quanto la ritiene frode a danno del prossimo.
La compravendita può essere considerata sotto due aspetti:
-a comune vantaggio dei due interessati “poiché, l‘uno ha bisogno dei beni dell‘altro, e viceversa. Ora, ciò che è fatto per un vantaggio comune non deve pesare più sull‘uno che sull‘altro. Quindi il contratto reciproco deve essere basato sull‘uguaglianza”.
Il valore delle cose è misurato dal prezzo per il quale è stato inventato il denaro e se il prezzo non corrisponde con il valore è un ‘ingiustizia.
-ci può essere il caso per cui “uno ha urgente bisogno di una cosa e l‘altro viene danneggiato privandosi di essa”,in questo caso il venditore può alzare il prezzo.
Se poi uno riceve un vantaggio rilevante dall‘acquisto senza che il venditore venga danneggiato privandosi di ciò che vende, questi non ha il diritto di aumentare il prezzo,caso mai,l’acquirente potrà pagare un prezzo superiore a quello concordato.
All’osservazione che la legge positiva al contrario della legge divina non contempla ciò,Tommaso risponde che “non può proibire tutto ciò che è contrario alla virtù, ma si limita a proibire ciò che minaccia il consorzio umano; le altre colpe poi le considera come lecite non perché le approvi, ma perché non le punisce”.
Il giusto prezzo inoltre “va computato con una certa elasticità, per cui piccole maggiorazioni o minorazioni non compromettono l‘uguaglianza della giustizia”.
Il giusto prezzo rappresenta uno dei temi più dibattuti dagli scolastici insieme a quello dell’usura,per Tommaso i prezzi dei beni ,benché siano sottoposti a mutare per una serie di fattori come la rarità dovrebbe in linea di massima corrispondere al lavoro e al costo necessari per produrli,tuttavia Tommaso ammette pure come legittima la vendita al prezzo corrente di piazza.
La questione è molto dibattuta e non è per nulla chiaro cosa sostenesse realmente Tommaso,sta di fatto che gli autori successivi attenueranno la definizione oggettiva per dare più importanza a quella soggettiva fino ad abbandonare il concetto stesso di giusto prezzo con la scolastica spagnola: per Scoto il mercante può aumentare il prezzo di un bene acquistato per trarre un corrispettivo per la sua diligenza e la sua prudenza e sottolinea il fatto che il valore dei beni è duplice,naturale e oggettivo o soggettivo e contingente e relativo ai nostri bisogni ,alla utilità del bene,alla sua rarità e alla sua attrattività ,per Bernardino invece è disumano determinare del prezzo di un bene in base all’utilità che arreca al compratore ,bensì bisogna basarsi su equa valutazione in funzione del bene comune e considerando vari fattori come il rapporto di pregio fra le cose utili ,la loro maggiore o minore corrispondenza a soddisfare determinate necessità,la loro durata,la loro durata,la forza di attrazione che esercita su di noi,la disponibilità del bene,la fatica e i pericoli che il bene è costato,
Si osserva insomma una sempre più maggiore flessibilità nella determinazione del prezzo che pur basandosi in primis sul costo di produzione include sempre di più anche componenti variabili e soggettive.
Gli scolastici medioevali al contrario di quelli cinquecenteschi sono lontani dal ritenere che il prezzo del mercato sia in sé sempre equo tant’è che chiedono per i beni di uso comune l’intervento dello Stato affinché fissi il giusto prezzo o tariffe massime .
La seconda domanda della Quaestio è se la vendita sia resa ingiusta e illecita per un difetto della cosa venduta.
In ciò che è venduto possono esserci tre difetti,specie della cosa,qualità e quantità,se il venditore ne è consapevole commette frode e la vendita è illecita ma “se uno di questi difetti nella cosa venduta capita all‘insaputa del venditore, allora costui non pecca, poiché commette un‘ingiustizia solo materiale e la sua azione non è ingiusta tuttavia è tenuto a riparare se viene a conoscenza della cosa”.
Ovviamente anche il compratore che acquista una merce sapendo che vale di più di quello che ritiene il venditore commetto un atto illecito.
La terza domanda è se il venditore sia tenuto a dichiarare i difetti di ciò che vende.
La terza domanda è se il venditore sia tenuto a dichiarare i difetti di ciò che vende.
Tommaso risponde che è “sempre illecito dare ad altri occasione di pericolo o di danno; sebbene non sia necessario sempre che uno dia agli altri aiuto e consiglio per assicurare loro dei vantaggi, ma solo in casi determinati”.
Il venditore che mette in vendita una merce difettosa celandolo all’acquirente la vendita è illecita poiché offre al compratore un‘occasione di danno o di pericolo,
Invece se i difetti sono evidenti “e se il venditore pensa da se stesso a ridurre debitamente il prezzo, allora non è tenuto a dichiarare i difetti di ciò che vende. Poiché per questi difetti probabilmente il compratore pretenderebbe un abbassamento esagerato del prezzo.”.
La tolleranza di Tommaso arriva al punto di affermare che “non è necessario che uno faccia annunziare dal banditore i difetti delle cose da vendere: poiché così allontanerebbe i compratori, ignorando essi le altre qualità e condizioni che rendono la cosa buona e utile. Tuttavia le tare vanno dichiarate personalmente a chi si avvicina per comprare e ha la possibilità di confrontare tutti i dati, buoni e cattivi: poiché nulla impedisce che una cosa difettosa sotto un aspetto, sotto molti altri sia invece utile”.
L’ultima domanda è se commerciando sia lecito vendere una cosa a più di quanto fu comprata.
Esistono due tipi di scambio:
– tra merce e merce, oppure tra merce e danaro, per le necessità della vita tipico dei capifamiglia;
– tra danaro e danaro, o tra qualsiasi merce e danaro, non per provvedere alle necessità della vita, ma per ricavarne un guadagno tipico dei commercianti.
Il primo è ritenuto lodevole : poiché soddisfa a una esigenza naturale. Il secondo invece è perché soddisfa la brama di guadagno che è in sé infinita.
Ma Tommaso introduce a questo punto la sua svolta : “si deve notare però che il guadagno, il quale costituisce il fine del commercio, sebbene non implichi di per sé un elemento di onestà o di necessità, non implica tuttavia nella sua natura alcunché di peccaminoso o di immorale. Perciò nulla impedisce di ordinare il guadagno a qualche fine necessario, o anche onesto. E in questo caso il commercio è lecito. Come quando uno ordina il modesto guadagno cercato nel commercio al sostentamento della propria famiglia, o a soccorrere i poveri; oppure quando uno si dedica al commercio per l‘utilità pubblica, cioè perché nella sua patria non manchino le cose necessarie, e ha di mira il guadagno non come fine, ma come compenso del proprio lavoro”.
Tommaso in questo modo riesce a rendere morale l’attività commerciale quando è ordinata ad un fine onesto quale il sostentamento della propria famiglia ,il soccorso dei poveri e il bene comune.
In questa visione il fine non è più il guadagno che si riduce a compenso del lavoro svolto,bensì il bene della società.
Già Anselmo aveva tuttavia già elogiato l’attività del mercante come protagonista dello scambio utile ai differenti territori.
Di fronte alla durissima affermazione di Crisostomo “chi compra una cosa per guadagnare nel rivenderla tale e quale, è uno di quei mercanti che viene cacciato dal tempio di Dio”Tommaso risponde affermando che le parole di Crisostomo vanno applicate al caso in cui uno rivenda una cosa tale e quale a un prezzo superiore ,non al caso in cui uno rivenda la cosa a un prezzo superiore dopo averla trasformata perché in quest’ultimo caso ha diritto di aumentare il prezzo.
Ma l’ambiguità del commercio rimane nonostante ogni tentativo di moralizzarlo tant’è che Tommaso afferma in chiusura che “i chierici non solo devono astenersi dalle cose che sono intrinsecamente cattive, ma anche da quelle che hanno l‘apparenza del male. E ciò si verifica nel commercio, sia perché esso è ordinato a un guadagno materiale, che i chierici devono disprezzare, sia per i molteplici vizi dei commercianti, poiché, come dice la Scrittura «a stento un commerciante sarà esente da colpe». E c‘è una seconda ragione: perché il commercio lega troppo l‘animo alle cose secolaresche, e quindi lo distoglie da quelle spirituali”.
Il profitto dato dalle attività commerciale mantiene insomma una certa ambiguità,può essere utilizzato per attività caritatevoli,oblazioni alle chiese,elemosine ai poveri,ma anche può generare desideri sfrenati di arricchimento e di tesaurizzazione.
Più audaci sono i teologi francescani che scopriranno nel denaro un modo di fruizione della ricchezza che,se risolto nella circolazione,nell’investimento, nell’elargizione ,nell’elemosina ossia nel movimento ,nella dissoluzione della materialità fisica del denaro,lo approssimava alla povertà evangelica.
A esempio l’Olivi nel suo commento al Vangelo di Matteo intorno al 1280 si soffermerà sul denarius come simbolo della beatitudine celeste “il denaro nella sua rotondità raffigura l’eternità della ricompensa divina. E con la unitarietà l’unitarietà della ricompensa perché vi è un unico Signore di tutte le cose,attraverso il pregio del suo materiale è rappresentata il pregio della ricompensa. Per il fatto che poi che il denaro è metro di misura delle vendite,essa simboleggia la corrispondenza e proporzionata alla ricompensa divina”.
La povertà diviene ,in questi teologi francescani ,accessibile a ogni cristiano in quanto è intesa come uso senza possesso,distribuzione senza accumulazione,produzione e rifiuto dell’inattività.
L’episodio della cacciata dei mercanti dal tempio è reinterpretato,non più solo condanna della simonia e della compravendita di beni ecclesiastici ma piuttosto come proibizione delle attività commerciali il cui profitto derivi esclusivamente dal calcolo speculativo e che non immettano sul mercato merci utili per se stesse o perché migliorate dal lavoro dell’imprenditore.
Nel secolo successivo la questione sarà di nuovo affrontata da Bernardino e Antonino.
Il primo fa una lista di attività lecite se rivolte al bene della società (importazione ed esportazione di beni dal luogo dove abbondano a dove scarseggiano,vendita al minuto di ciò che si è comprato all’ingrosso,conservazione dei beni e loro miglioramento) e di attività illecite(commercio in giorni festivi,vendita di carne corrotta o di medicine nocive,alterazione di pesi,azione monopolizzatrice ,doppiezza,simulazione e spergiuro)mentre il secondo ,più flessibile,ammette la speculazione purché mossa da fini onesti pur mantenendo tutte le tradizionali posizioni sulla frode.
Arriviamo alla questione economica sicuramente più dibattuta dalla scolastica,l’usura che ,insieme alla simonia ,è dalla teologia morale la più grave forma di avaritia.
Come dice Le Goff “L’usura è uno dei grandi problemi del XIII secolo. A quest’epoca la cristianità all’apice del possente sforzo compiuto a partire dall’Anno Mille ,è già in pericolo. Il sorgere improvviso e il diffondersi dell’economia monetaria minacciano gli antichi valori cristiani. Sta per formarsi un nuovo sistema economico ,il capitalismo,che per avviarsi necessita,se non di tecniche nuove,per lo meno di pratiche da sempre condannate dalla Chiesa. Una lotta accanita,quotidiana,costellata di proibizioni ripetute,punto di incontro di valori e delle mentalità che come posta in gioco la legittimazione del profitto lecito,che bisogna distinguere dall’usura illecita”.
Ma che cosa si intende per usura?Per usura è la riscossione di un interesse da parte di chi presta in denaro e la immoralità di questa pratica è basata su sei riferimenti biblici:
– “Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che sta con te, non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse”(Es 22,24)
– “Se il tuo fratello che è presso di te cade in miseria ed è privo di mezzi, aiutalo, come un forestiero e inquilino, perché possa vivere presso di te. Non prendere da lui interessi, né utili; ma temi il tuo Dio e fà vivere il tuo fratello presso di te. Non gli presterai il denaro a interesse, né gli darai il vitto a usura”(Lv 25,35-37)
– “ Non farai al tuo fratello prestiti a interesse, né di denaro, né di viveri, né di qualunque cosa che si presta a interesse”. (Dt 23,20)
– “Signore, chi abiterà nella tua tenda?
Chi dimorerà sul tuo santo monte?
Colui che cammina senza colpa,
agisce con giustizia e parla lealmente,
non dice calunnia con la lingua,
non fa danno al suo prossimo
e non lancia insulto al suo vicino.
Ai suoi occhi è spregevole il malvagio,
ma onora chi teme il Signore.
Anche se giura a suo danno, non cambia;
presta denaro senza fare usura,
e non accetta doni contro l’innocente.
Colui che agisce in questo modo
resterà saldo per sempre”. (Salmo 15)
– “Ma se uno ha generato un figlio violento e sanguinario che commette qualcuna di tali azioni, mentre egli non le commette, e questo figlio mangia sulle alture, disonora la donna del prossimo,
opprime il povero e l’indigente, commette rapine, non restituisce il pegno, volge gli occhi agli idoli, compie azioni abominevoli,
presta a usura ed esige gli interessi, egli non vivrà; poiché ha commesso queste azioni abominevoli, costui morirà e dovrà a se stesso la propria morte”(Ez 10-13).
-“E se fate del bene a coloro che vi fanno del bene, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, che merito ne avrete? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell’Altissimo; perché egli è benevolo verso gl’ingrati e i malvagi”(Lc 6,34,35)
Si potrebbero aggiungere una lunga serie di condanne canoniche per gli usurai ma la lista sarebbe talmente imponente che rischierebbe di appesantire l’esposizione.
L’usura è definita da Ambrogio “prendere di più di quanto si sia dato” e da Girolamo “qualunque cosa se si è preso più di quanto si sia dato”,insomma l’usura è il sovrappiù illecito ,l’eccedenza illegittima.
Il decretale “Consuluit” di Urbano III stabilisce è usura tutto ciò che viene chiesto in cambio del prestito oltre il prestito stesso e la sola speranza di un bene in contraccambio che vada oltre il bene stesso è peccato.
L’usura è un furto per Anselmo ,Ugo di San Vittore e Pietro Lombardo poiché “poiché si vende in tal modo una cosa inesistente, determinando una sperequazione che è in contrasto con la giustizia”.
Per evitare di perdersi fra decine di autori sarà bene illustrare per prima la posizione tomista e poi in seguito esporre le altre posizioni di autori minori.
Per capire comprese la posizione di Tommaso bisogna distinguere preliminarmente distinguere
due casi:
-cose per cui l’uso coincide con il consumo(tali sono, p. es., il vino che consumiamo usandolo per bere, e il grano che consumiamo usandolo per mangiare. Perciò in queste cose l‘uso non va computato come distinto dalle cose stesse, poiché la concessione dell‘uso implica la concessione della cosa. Quindi per tali cose il prestito determina un passaggio di proprietà).
In questo caso non si può separare il bene dal suo uso” poiché la concessione dell‘uso implica la concessione della cosa”.Se uno volesse vendere un bene e non il suo uso venderebbe due volte la stessa cosa o venderebbe una cosa inesistente. Così uno, dando in prestito un bene non separabile. commette un’ingiustizia se chiede “due compensi, cioè la restituzione di una cosa equivalente e in più il prezzo dell‘uso, denominato usura.”
-cose per le quali l’uso è distinto dal consumo e “in questi casi si può concedere l‘una o l‘altra delle due cose: p. es. uno può concedere a un altro la proprietà della casa riservandosene però l‘uso per un certo tempo; o viceversa uno può concedere l‘uso conservando la proprietà”.
In questo caso è ammissibile chiedere un compenso per l‘uso del bene , ed esigere oltre a ciò la restituzione della bene stesso. E’ il caso dei contratti di locazione.
Per capire questa distinzione bisogna rifarsi al diritto romano che distingueva fra contratto di mutuo che stabiliva che il mutuante trasferisse la proprietà di cose fungibili al mutuatario ,obbligandosi alla restituzione in cose uguali per genere,qualità e quantità e contratto di locazione cioè di godimento temporaneo di un bene e nel quale corre un corrispettivo.
Ma qual è il fine del denaro?Agevolare gli scambi commerciali cioè “il consumo o la spesa che
di esso viene fatta negli scambi”.
Ma se questa è la sua funzione, cioè essere un mezzo per vendere o acquistare beni, il prestito con interesse non è lecito ed “è illecito il percepire un compenso per l‘uso del danaro prestato”, il denaro infatti è fatto per essere consumato e come per il vino non si può separare il suo uso dal suo consumo quindi è illecito chiedere insieme alla restituzione del denaro ,un sovrappiù che non ci spetta,fare profitto con il prestito del denaro ,oltre ad essere un furto,è contro natura perché il denaro è sterile e vige per gli usurai l’obbligo di restituire integralmente il denaro ottenuto illecitamente dagli interessi ,tuttavia è lecito in caso di estrema necessità ottenere prestiti ad usura “poiché è lecito tuttavia servirsi del peccato altrui per il bene: poiché Dio stesso si serve di tutti i peccati per un fine buono”.
La distinzione fra la moralità del prestito con interesse e del contratto di locazione è brillantemente esposta da un testo apocrifo falsamente attribuito a Crisostomo “Si obbietterà :chi dà in affitto un campo o una casa per riscuotere un canone di locazione per ricevere per ricevere affitto ,non è forse paragonabile a chi presta denaro a interesse?Certo che no:innanzi tutto perché l’unica funzione del denaro è pagare un prezzo d’acquisto ;inoltre il colono fa fruttificare la terra ,il locatario utilizza la casa. In questi due casi ,il proprietario sembra concedere l’uso del suo possesso per ricevere denaro,e in certo modo ,scambiare guadagno con guadagno ,mentre il denaro prestato non può essere utilizzato in alcun modo;infine l’uso isterilisce a poco a poco il campo ,deteriora la casa mentre il denaro prestato non subisce né diminuzione né invecchiamento”:
Il fatto che ebrei abbiano avuto la permissione di fare prestiti agli stranieri rispecchia una contrapposizione ebrei-gentili abolita dalla legge evangelica e non giustifica affatto l’usura fra i cristiani e neppure il fatto che la legge positiva vieti l’usura non significa nulla poiché “le leggi umane lasciano impuniti alcuni peccati per la condizione degli uomini imperfetti, inquantoché verrebbero impediti molti vantaggi se venissero rigorosamente puniti tutti i peccati”.
Mentre non è doveroso concedere prestiti,è doveroso non chiedere l’interesse sui prestiti perché è pretendere come dovuta una cosa che non esiste in quanto l’uso del denaro non è separabile dal consumo ,non è illecito invece ricevere doni per la concessione di prestiti senza interesse ed è addirittura doveroso richiedere “ricompense non misurabili col danaro: come la benevolenza e l‘amore di chi ha avuto il prestito, o altre cose del genere”.
E’ lecito stabilire “stabilire nei patti col mutuatario un compenso per il danno conseguente alla privazione di ciò che era in suo possesso: infatti questo non è un vendere l‘uso del danaro, ma ottenere un indennizzo”,invece è usura “se uno pretende di vendere la sua merce a un prezzo maggiorato per rifarsi sul compratore della dilazione del pagamento, poiché questa dilazione di pagamento ha natura di prestito, e quindi tutto ciò che si esige oltre il giusto prezzo a motivo della dilazione è come la paga di un prestito, il che è precisamente usura o interesse”.
Quanto a che cosa va restituito in caso di usura si afferma che nel caso di beni in cui l’uso non è distinto dal consumo “uno è tenuto solo a restituire quanto ha preso: poiché gli acquisti fatti con tali beni non sono frutto delle cose, ma dell‘industria umana”,invece nel caso di beni il cui uso è distinto dal consumo uno è tenuto a restituire anche i beni che il bene da essi percepiti.
Per elaborazione della condanna medievale sul prestito ad interesse è fondamentale il pensiero di Aristotele che tratta il tema in un passo della Politica:”essendo possibili due forme di crematistica l’una consistente nel commercio e l’altra all’amministrazione(e quest’ultima necessaria e approvata ,la prima ,che consiste negli scambi giustamente disapprovata perché non è naturale ma fondata sullo sfruttamento reciproco),ben ragionevolmente si nutre odio per il prestito ad interesse ,in quanto trae guadagno dal denaro stesso e non dal fine per cui esso fu escogitato:infatti esso fu prodotto per gli scambi ,mentre l’interesse ne aumenta la quantità .Di qui esso ha tratto il nome con cui lo si designa in greco:infatti i figli sono simili ai genitori e l’interesse è denaro di denaro,costituendo appunto per questo il più contro natura di tutti i modi di arricchire”.
Per Aristotele esistono due tipi di crematistica:una naturale subordinata all’amministrazione domestica e una innaturale legato al commercio,a quest’ultima è connesso il prestito ad interesse che è una perversione dell’uso del denaro che non è adoperato per acquistare beni ma per fare profitto per mezzo della riscossione degli interessi,un atto innaturale vista il denaro in sé è sterile,essendo mezzo ,non fine.
La sterilità del denaro sarà lungamente sottolineata dai teologi e sintetizzata nell’adagio “Nummus non parit nummos”(il denaro non genera figli),con questo non si vuol negare ogni produttività del capitale ma il fatto che far generare denaro dal denaro è contro natura,l’usura è un cancro ,un mostro a più teste ,un’idra come dice Pound:
Il Male è Usura, neschek
Il serpente neschek
Serpente il cui nome è conosciuto, il profanatore
Tochos hic mali medium est
Qui è il cuore del male
Il cancro che tutto corrompe
Serpente dalle sette teste, Idra che penetra dovunque.
La mostruosa fecondità dell’usura spaventa e terrorizza il medioevale che inorridisce pensando al fatto che “il denaro a usura non smette di lavorare e fabbrica denaro senza posa “non fermandosi né di notte né durante le feste né di Domenica fornendo così ulteriore prova di disprezzo verso l’ordine naturale fissato da Dio;l’usuraio inoltre è l’avaro per eccellenza perché non impiega il suo denaro per il bene comune né per aiutare i poveri ma oziosamente aspetta che gli interessi illegittimamente pretesi fruttino.
Guglielmo di Auxerre sottolinea un altro aspetto immorale dell’usura:in essa si vende il tempo e così facendo si agisce contro la legge universale per cui il tempo appartiene a Dio e l’usurario non ha diritto di appropriarsene e Tommaso di Chobham aggiunge che “l’usurario commette un furto perché egli prende un bene altrui contro la volontà del proprietario cioè Dio” e la Tabula exemplorum ricorda che “gli usurai sono dei ladri perché vendono il tempo che non gli appartiene.”mentre un altro manoscritto del XIII secolo sintetizza in modo efficace le due critiche all’usura, la sterilità del denaro e il furto del tempo:”gli usurai peccano contro natura volendo far generare denaro dal denaro come un cavallo da un cavallo o un mulo da un mulo. Oltre cioè sono dei ladri ,poiché vendono il tempo che non gli appartiene ,e vendere un bene altrui contro la volontà del proprietario è un furto”.
Altra critica che è rivolta agli usurai è il venir meno al dovere del lavoro come dice Tommaso di Chobman :“l’usuraio vuol ricavare un profitto senza lavorare affatto e addirittura dormendo cosa che contravviene il precetto del Signore “Con il sudore della tua fronte mangerai il pane” ;infatti il lavoro è strumento di riscatto,di dignità,di salvezza,di collaborazione all’opera del Creatore,in questo ordine di progresso “l’usuraio è un disertore”.
Mentre è esaltata la distribuzione e l’investimento della ricchezza monetaria,si condanna la tesaurizzazione come comportamento sterile e tipico degli infedeli di cui il prestito ad interesse è la concretizzazione più deleteria, il denaro deve essere fatto fruttare ,lo ricorda anche il Vangelo con la parabola dei talenti ma deve essere fatto in maniera lecita e a vantaggio della comunità.
L’usuraio è uno dei pochi mestieri ritenuti in sé illeciti ,perfino la prostituzione gode di un trattamento più benevolo tant’è che Tommaso afferma che “La donna infatti che fa la prostituta esercita un mestiere turpe contro la legge di Dio, ma nel ricevere il compenso
non agisce ingiustamente, né contro la legge”poiché non è il guadagno medesimo illecito, ma perché la cosa da cui viene ricavato è disonesta al contrario dell’usura in cui il guadagno stesso è illecito.
I teologi successivi a Tommaso si manterranno sulla stessa linea dell’Aquinate nonostante il contesto economico molto cambiato:Egidio Romano aggiunge alla condanna dell’usura anche il prestito di una casa non sotto forma di locazione e che la peccaminosità di un prestito non riposa sulla mancanza si rischio perché si può ricevere,Egidio di Lessines sottolinea la necessità di determinare con certezza il sovrappiù dell’usura e approfondisce il tema della vendita del tempo(rileva che i frutti e gli usi dei beni possono variare a causa del tempo) e Bernardino si scaglia contro l’usura negando la sua necessità sociale.
Bisogna poi dire che per usura si intende non soltanto il prestito con interesse ma anche l’acquisto con pagamento dilazionato, i prestiti dei signori ai dipendenti con la pretesa di un maggiore numero di giorni di lavoro oltre quelli dovuti o la vendita di un bene con un prezzo superiore al valore o richiesta di fitti troppo elevati o acquistare una merce che verrà ricevuta quando varrà il doppio o l’eccesso di garanzie in un prestito o il pagamento ritardato di salari o un prezzo diverso per il pagamento in contanti o a credito ,insomma per usura si intende ogni pretesa di ciò che non è dovuto,ogni atto ingiusto in ambito commerciale.
Con lo sviluppo delle attive economiche il campo dell’usura si restringerà e si preciserà e si preciserà permettendo a molti mercanti di “mettersi in regola” con la Chiesa,esattamente verranno teorizzate cinque giustificazioni che rendono lecito la riscossione di un interesse:
-le prime due fanno riferimento al concetto di indennità :il damnum emergens (l’unica ammessa da Tommaso ma solo in caso di ritardo dell’adempimento,non se l’obbligo è soddisfatto nei termini) cioè la comparsa di un danno dovuto a un ritardo del rimborso e il lucrum cessans cioè l’impedimento di un maggiore profitto che il mercante mutuante avrebbe potuto avere utilizzando per un investimento il denaro prestato;
-la terza si basa sulla constatazione che nel prestare un capitale c’è una percentuale di rischio il periculum sortis(anche la sua accettazione sarà molto tarda) ;
-la quarta è la messa in conto dell’incertezza (ratio incertitudinis);
-la quinta verte sulla necessità di una retribuzione per il lavoro (stipendium laboris) compiuto dal mercante.
E’ dibattuta nel pensiero scolastico anche la liceità del prestito realizzato impegnandosi a versare come corrispettivo un censo proveniente da un determinato bene immobile,alcuni teologi lo ritengo lecito perché lo ritengono uno compravendita perché non è la moneta che si vende ma il diritto a ricevere una certa quantità a scadenza stabilità ,altri sottolineano la problematicità dei censi non perpetui che possono essere accostati ai prestiti veri e propri.
Un’altra questione dibattuta è quella dei prestiti forzosi allo Stato che suscitano un vivace scontro perché i comuni imponevano ai cittadini di contribuire alle finanze offrendo loro un corrispettivo .
Una delle analisi più acute del fenomeno fu fatta dal francescano Lorenzo de’ Ridolfi che dimostra il carattere lecito di questo prestito poiché il prestito non è intenzionale né ha come fine l’utilità(in tal caso sarebbe illecito) che è quasi nulla e danneggia gravemente i mercanti ed è lecito che ricevano un indennizzo.
Quanto alle partecipazione e alla creazione di società si va verso la loro piana accettazione le tesi tomistiche prevalgono secondo le quali “chi consegna il proprio danaro a un mercante o a un artigiano facendo società con essi, non cede loro il dominio, ma il danaro rimane di sua proprietà: per cui è a suo rischio l‘uso che ne fa il mercante o l‘artigiano. Quindi egli può pretendere parte del guadagno, essendo qualcosa che gli appartiene”.
Antonino condanna la partecipazione ad attività dove il capitale non corra rischi:la società è una specie di fratellanza dove rischi e guadagni devono essere condivisi da tutti quelli che ne fanno parte,se viene a mancare uno di questi elementi si cade nell’usura.
Sulle operazioni di cambio il giudizio è vario a seconda dalla pratica:è ritenuto lecito di solito un guadagno per il lavoro svolto o per la difficoltà di trattare con valuta straniera o del rischio purché non ci sia l’intenzione lucrativa.
Sulla politica monetaria tre sono le posizioni più autorevoli:
-la posizione tomista che richiamandosi ad Aristotele ritiene che la moneta abbia come fine il misurare l’utilità degli altri beni ,è una misura come le altre e come tale è stabilita dall’autorità;
-la posizione di Buridano che dopo aver dimostrato la preferibilità dell’impiego del denaro negli scambi rispetto al baratto sostiene che la moneta riveste una funzione di servizio pubblico e spetta come tale all’autorità regolarne l’impiego;
-la posizione di Nicola Oresme che dopo aver sottolineato la necessità che il denaro per svolgere al meglio la sua funzione di mezzo di scambio debba essere facilmente riconoscibile ,maneggevole e leggero e fatto di materiale prezioso ,afferma che l’autorità pur dovendo coniare il denaro ,non lo possiede poiché esso è proprietà della comunità e le leggi che lo riguardano non possono essere modificati se non in meglio.
Interessante fenomeno per le sue implicazioni morali è quello dei Monti di Pietà che compaiono fra XV secolo e XVI secolo nate su iniziativa dei Francescani per erogare prestiti di limitata entità in cambio di un pegno che si diffondono in tutta Italia.
Il monte di pietà istituito nel 1462 a Perugia è ben presto imitato altrove; nel giro di una dozzina d’anni nell’Italia centrale sorgono una quarantina di monti e in seguito la nuova istituzione dilaga nell’Italia Settentrionale (Bologna 1473, Savona 1479, Milano e Genova)
La loro funzione era fare prestiti alle magistrature cittadine e perseguire finalità sociali e caritatevoli, i prestiti sono concessi a fronte del pegno di oggetti preziosi ma non solo e all’inizio sono gratuiti solo successivamente è introdotto un modesto interesse rivolto al solo scopo di far fronte alle spese di esercizio.
Furono tenacemente avversati dai domenicani che vedevano nella loro attività una forma seppur celata di usura mentre furono difesi dai francescani che giustificarono la riscossione di interessi non come prezzo del mutuo ma come partecipazione alle spese di funzionamento.
Ai monti di pietà stabiliti nei centri urbani fanno riscontro nella campagne organismi simili: i monti frumentari, che prestano il grano da semina da restituirsi al successivo raccolto, e i monti delle castagne, che operano nelle zone montuose più povere.
Niccolò Bonetti

Socrate e il socratismo nella cultura universale

novembre 21, 2009

H. Maier, nel suo monumentale “Socrate e il suo posto nella storia”, descrive la figura di Socrate come “una di quelle figure che hanno un posto nella storia dell’umanità pari ad un Buddha o ad un Gesù Cristo”. Questo è tutt’altro che falso, poiché Socrate non è un “semplice” filosofo ma l’archetipo del filosofo e del filosofare. I pensatori a lui precedenti, come Talete o Eraclito, Anassimene o Anassimandro sono piuttosto dei saggi o sapienti,ma non sono filosofi. Non tanto perché non provassero un sentimento di sete, di brama verso la sapienza,ma perché la filosofia non richiede solo sapienza e saggezza ma qualcosa di più che Socrate aveva al sommo grado: quello sguardo onnicomprensivo e metalogico che gli permetteva di fare professione di ignoranza da un lato, e di vedere la natura delle cose su base costantemente problematica, a-sistematica ma non per questo a-logica ed a-razionale.
Il sistema imbriglia il fluire del pensiero che al contrario deve svolgersi problematicamente nelle piazze ed aprirsi all’alterità. Socrate, nel mettere sotto torchio i presunti sapienti del tempo, dal poeta all’artista, dal politico al sacerdote (inteso come uomo del culto sacrale), con la sua ironia che è una sottile strategia psicologica per consentire all’interlocutore di “dire tutto ciò che sa e pensa”, pendendo dalle sue labbra, esercita un dovere morale e teoretico del filosofo: mettere in crisi la falsa conoscenza per permettere all’essere umano di iniziare la sua ricerca personale ed iniziatica.
Socrate non scrisse nulla per un motivo ben preciso; proprio perché la filosofia non può essere sistema ma “pensiero in movimento”, esercizio della ragione dialettica, scrivere sarebbe come fossilizzare la filosofia. La vera filosofia si trasmette nell’Incontro e nella messa in crisi delle certezze date per scontate.
Ricerca della propria verità, sguardo sulla totalità in vista di una sua comprensione razionale ed universale, alterità come opportunità di crescita individuale e comunitaria. Tutto questo è ciò che lascia Socrate alla cultura dell’umanità.
Il suo tragico destino, accettato con un eroismo impareggiabile, ne fa un martire che è il simbolo del martirio filosofico, dell’uomo che per la difesa delle sue idee e del suo modus vivendi accetta serenamente anche la morte quand’essa è ingiusta. Supremo sacrificio della sapienza che si lascia uccidere per simboleggiare la sua eterna scomodità e il suo rifiuto della mondanità inferiore, di quel mondo che sceglie la morte e non la vita, la tradizione e non già la filosofia, il dogma e non la ricerca.
Socrate lascia un segno così profondo da essere considerato da molti un precursore di Cristo. Jacobi sul finire del XVIII secolo, Erasmo, Boezio nella sua consolazione della filosofia, con quest’ultima, personificata, che gli ricorda come già Socrate abbia dovuto subire la condanna del mondo, Platone, il continuatore della missione socratica. Tutti costoro vedono in Socrate il modello del filosofo a cui avvicinarsi. La filosofia socratica è missione, è daimon, è compito imposto da Dio, è pianto e morte in croce, è una filosofia che non conosce né compromesso né fine. Socrate è il Cristo greco, è l’archetipo del filosofo. Si è filosofi se si è ignoranti come Socrate e se si vive la filosofia nel suo destino morale e politico come lui. Con una formula che è contraltare di quella Hegeliana (filosofare è spinozare), direi: “Filosofare è socratizzare”.
L’apparentemente estrema affermazione “Il male deriva dall’ignoranza” è vera se intendiamo per ignoranza l’assoluta nescienza come assenza di ricerca del vero e del giusto. Con Socrate lo Spirito si incarna in un essere che mentre pensa agisce per il giusto, e mentre agisce rettamente spiega qual è la vita giusta secondo ragione e scienza. Non che prima gli uomini onesti non vi siano stati, ma in Socrate giustizia e filosofia sono un unicum. Si è esseri morali se si è filosofi e dialettici, e si è filosofi se si ha dentro di sé una scintilla di santità che è identificata con la natura del Sé.
La portata rivoluzionaria del discorso socratico è evidente. La dissidenza politica e civile diventa con Socrate missione esistenziale e getta in crisi la polis e la sua identità.
La rivoluzione socratica è persino maggiore di quella d’Ottobre in Russia. Quella liberava dalle catene e dal giogo della borghesia ed aristocrazia, questa libera l’uomo nella sua integrità facendolo riflettere compiutamente su di sé e sul mondo entro cui vive.
Una simile ricerca del vero in senso comunitario e globale non può che infastidire il potere. Oggi sarebbe necessario un nuovo socratismo, perché il socratismo non è una mera filosofia ma è un modo d’essere nel mondo, che apre le porte al perfezionamento morale, esistenziale, politico e filosofico entro un orizzonte di trascendenza “immanente”.
Il socratismo nella storia della cultura universale ha quindi un peso tanto grande da essere un macigno. Chi davvero potrebbe imitare il Maestro? Possiamo solo ascoltare le sue parole ispirate e provare ad applicarle nei limiti della nostra mediocrità.
L’etica e la filosofia politica, la metafisica. Tutte queste discipline e quindi l’intera storia della cultura universale NON sarebbero mai sorte senza che Socrate tracciasse la via della loro realizzazione.
L’uomo di Socrate non è né greco né orientale, né americano. E’ l’uomo nella sua perfezione individuale. In questo senso il messaggio socratico è universale, eterno e immortale al tempo stesso.

Fabio Elemento

I libri M e N della Metafisica di Aristotele

novembre 5, 2009

Il libro M ovvero il tredicesimo della Metafisica affronta il problema dell’esistenza delle idee e degli enti matematici e esamina se essi siano o non siano principi degli esseri.
Si parte esaminando lo status ontologico degli oggetti matematici e ,a proposito di esso , Aristotele precisa che esistono sul tema tre posizioni:
-esistono immanenti ai sensibili(pitagorismo) ;
-esistono separati dai sensibili(platonismo);
-esistono in un modo ancora diverso.
Si passa subito alla confutazione delle prime due ipotesi e contro la prima si adducono tre argomentazioni:
-due solidi non possono esistere nello stesso luogo;
-altre realtà dovrebbero essere immanenti ai sensibili e nessuna potrebbe essere separata;
-i corpi sarebbero invisibili ,essendo gli enti matematici indivisibili.
Contro la seconda ipotesi si radunano nove argomentazioni:
-si generano un cumulo di realtà separate nel porre enti geometrici anteriori a quelli sensibili;
-si generano un cumulo infinito di unità separate;
– l’ammissione di numeri separati porta ad ammettere anche la separatezza degli enti astronomici,ottici e musicali essendo anch’essi matematici;
– l’ammissione di numeri separati porta ad ammettere assiomi separati;
-essendo ciò che imperfetto anteriore in quanto alla generazione e posteriore in quanto alla natura, essendo gli esseri matematici anteriori ai sensibili e inanimati ed essendo ciò è inanimato anteriore a ciò che animato quanto alla generazione ma posteriore quanto alla natura, gli esseri matematici saranno anteriori quanto alla generazione ma posteriori quanto alla natura;
-mancando di una forma i numeri sono privi di unità;
-facendo derivare il corpo dalla superficie e la superficie dalla linea e la linea dal punto ed essendo ciò che è posteriore per generazione anteriore per natura, il corpo sarà più perfetto della linea e del punto contro le convinzioni platoniche(in realtà Aristotele confonde corpi fisici ed enti geometrici);
-le linee e le superfici sono possono essere sostanze non potendo esserlo nel senso né di essenza né di materia;
-il fatto che gli enti matematici siano anteriori per nozione non implica che lo siano anche per sostanza.
Ma allora in che modo esisteranno gli enti matematici?
Essi non hanno un esistenza separata dai sensibili ,esistono in potenza nei sensibili e sono separati solo in forza dell’astrazione.
Noi infatti possiamo considerare le cose sensibili prescindendo dal moto e addirittura dal loro stesso carattere di esseri sensibili e analizzarle solo come enti matematici,così fa infatti il matematico.
Non sono per questo non essere perché esistono già in potenza negli enti sensibili.
Aristotele poi rigetta la tesi di chi sostiene che la matematica non parli del bello: le matematiche fanno conoscere il bello in sommo grado ,essendo le forme supreme di esso (l’ordine,la simmetria e il definito), le stesse della matematica.
Esaurita la discussione sullo status dei numeri si passa alle idee, ripetuta la genesi platonica delle idee già esposta con relative critiche anch’esse già esposte in precedenza, si passano ad elencare in modo estremamente confuso e irregolare le varie ipotesi concernenti i numeri visti come sostanze ideali:
– differenza specifica dei numeri ideali che si divide in due altre ipotesi :differenza specifica delle stesse unità che compongono i numeri(quindi non combinabili)e differenza non specifica ma di processione delle unità(quindi combinabili)
-esistenza sia di unità non combinabili sia di unità combinabili (ad esempio all’interno della Diade le unità sarebbero combinabili ma non le unità della Diade con quelle della Triade);
-sintesi delle precedenti ipotesi(alcuni numeri non combinabili,altri combinabili,in altri ancora combinabili sono solo le unità all’interno del numero.
Aristotele passa a confutare le tesi della combinabilità delle unità con un argomento, dell’incombinabilità con quattro argomentazioni e della combinabilità solo interna con otto argomentazioni.
La prima tesi è confutata in due punti:
-se tutte le unità fossero combinabili e indifferenziate ,si genererebbe un numero matematico(non c’è più un numero ideale a cui corrisponde un’idea ma ce ne sarebbero molti);
-se le idee non sono numeri ideali, non esistono(le idee derivano infatti dagli stessi Principi dei numeri).
Si passa a confutare la tesi per cui le unità sarebbero incombinabili:
– un’unità non combinabile distrugge il numero ideale(non è possibile che dalla diade indefinita e dall’uno derivino la diade ideale e poi gli altri numeri ideali :infatti essendo le unità incombinabili e essendo quindi una anteriore all’altra ,le monadi costituenti la diade saranno una anteriore all’altra e di conseguenza la prima monade della diade sarà anteriore alla diade stessa);
-ci saranno una seconda unità prima della diade e una terza unità prima della triade come conseguenza dell’anteriorità delle unità non combinabili;
– i numeri ideali non sono unici perché ciascuno di essi è parte di un altro (la tetrade come somma di due diadi) o, se si ammette il processo di derivazione platonico e si fa derivare la tetrade dall’unione della prima diade con la diade indefinita,le due diadi della tetrade saranno altre dalla diade in sé e ci saranno così tre diadi in sé;
-esistono molte diadi e triadi nei numeri, non una sola.
Infine si confuta la tesi per cui le unità sarebbero internamente combinabili:
-le pentadi che costituiscono la decade differiscono fra loro così come le unità ideali che le costituiscono differiscono fra loro e se non differissero, non potrebbero costituire due pentadi differenti,ma ammettendo che le dieci unità della decade siano differenti fra loro ,ciò comporta come conseguenza che esse possano formare non solo due pentadi ma molte di più: allora la decade sarà non solo una ma molte ma questo è impossibile.
-si rileva la difficoltà nel sostenere un rapporto di partecipazione fra numero e unità;
-anche un ‘unità per contatto o mescolanza è assurda;
-si sottolineano assurdità derivanti dall’ammettere diadi o numeri ideali dentro altri numeri;
-la differenza fra numeri non può essere differenza nelle unità;
-due unità sommate insieme di due numeri diversi non sono neppure unità;
-la triade è maggiore della diade ma essendo le unità specificatamente diverse non si può dire che le unità della triade siano maggiori a quelle della diade;
-se i numeri devono essere forme ,le unità devono essere non combinabili per evitare che ci siano molteplici diadi ma questo rende impossibile contare per mezzo di una singola operazione ripetuta;
Aristotele rigetta anche le tesi di Speusippo (che elimina le idee e lasciando i soli numeri matematici)e Senocrate (che fonde numeri matematici e ideali).
Le tesi di Speusippo sono confutate con tre argomentazioni:
-è assurdo porre l’uno come principio anteriore e non anche gli altri numeri;
-non c’è più differenza fra l’uno e i numeri matematici essendo venuti meno i numeri ideali;
-se l’uno è principio deve essere un numero ideale.
Le tesi di Senocrate sono velocemente respinte poiché eliminando, di fatto, il numero matematico,cadono nelle stesse critiche in cui cade la dottrina dei numeri ideali.
Si passano a discutere altre tre questioni:
-come i numeri derivino dal principio materiale;
-finitezza o infinitezza dei numeri ideali;
-la natura dell’uno.
Si esamina la questione della derivazione dall’uno e dalla diade: se le unità derivano da un processo di egualizzazione della diade ad opera dell’uno,o l’unità deriva dal grande e dal piccolo o un’unità dal grande e l’altra dal piccolo:nel primo caso non potrà se ciascuna delle unità deriva dal grande e dal piccolo risultare un ‘entità unica;nel secondo caso se un’unità deriverà dal grande e una dal piccolo saranno differenziate,una grande e una piccolo ma soprattutto non si spiega da dove da deriverà la terza unità della triade.
Si esamina poi se i numeri siano finiti o infiniti e entrambe le tesi risultano non sostenibili:
-i numeri sono possono essere infiniti perché l’infinito non è né pari né dispari e in particolare visto che i numeri ideali sono collegati alle idee ,dovrebbe esistere un’idea infinita;
-i numeri non possono essere finiti perché è assurdo limitare i numeri ideali alla decade come fanno i platonici e poiché esistono infinite idee di uomini esisteranno infiniti numeri ideali.
Si passa discutere della natura dell’uno:
-se si considera il numero come composto e l’uno elemento, sarà anteriore l’uno, se si considera il numero come forma e l’uno come elemento materiale l’uno sarà posteriore,in realtà l’uno è solo principio materiale;
– l’errore dei platonici è stato di unire la matematica (che si occupa di unità) e la filosofia(che si occupa di forme);
-le unità della diade dovranno essere anteriori alla diade stessa ma questo è impossibile per i platonici;
-i numeri generati dalle somme non possono derivare dall’uno e dalla diade.
Si passa alla critica dei principi materiali degli enti geometrici:
-se i principi materiali degli enti geometrici sono lungo e corto, largo e stretto, alto e basso la superficie non potrà essere lunga o corta né il solido largo e stretto e se si connetteranno i vari attributi si finirà per identificare fra loro gli enti geometrici;
-non si spiega la derivazione degli angoli e delle figure che derivano invece da eccesso e difetto;
– lungo e corto, largo e stretto, alto e basso sono affezioni, non principi;
-se questi principi materiali sono una cosa unica, da essi non deriverà che una cosa unica;
-se questa materia dei principi sarà diversa, gli enti deriveranno uno dall’altro o non potranno essere uno nell’altro.
Si esamina la questione della derivazione dei numeri dai principi:
-non è possibile una combinazione principio forma e materiale per generare il numero;
-se ciascun’unità è una, non certo deriva certo dall’uno in sé e dalla molteplicità ,quindi dall’uno e dalla molteplicità ma questo è impossibile;
-secondo Speusippo esistono due molteplicità una finita, l’altra infinita ma non si spiega che tipo di molteplicità è il principio materiale del numero.
Si pongono due dilemmi:
-se non si ammette che le idee siano sostanze in sé allora si elimina la sostanza;
-se si ammette che le idee siano sostanze, non si spiega come si concepiranno i principi di esse.
Il primo dilemma si divide in due corni:
-i principi saranno particolari;
-i principi saranno universali.
Il primo corno è insostenibile, infatti, i principi saranno le uniche cose esistenti e in più inconoscibili.
Il secondo segue la stessa sorte, infatti, le sostanze da essi prodotte saranno anch’esse universali ,una contraddizione in termini.
L’unico modo è eliminare le idee e il libro si chiude con la distinzione fra scienza in potenza universale e indeterminata e scienza in atto particolare e determinata.
Si passa all’ultimo libro della Metafisica,il libro N dove si continua la critica dei principi ammessi dai platonici e passa ad evidenziare le assurdità della teoria dei principi:
-i principi non possono essere contrari perché i contrari presuppongono un sostrato e alla sostanza nulla è contrario;
-i due principi sono uno formale l’altro materiale ma il principio materiale pur essendo uno quanto alla nozione ,non lo è quanto al numero;
-se l’uno si contrappone al molteplice, l’uno è poco;
– l’uno non è una realtà a se stante ma si predica di altro;
-il grande piccolo esprime solo affezioni;
-il grande piccolo esprime una relazione;
-le relazioni non può essere né potenza né relazione;
-il molto e il poco si predicano di ciò di cui sono principi.
Seguono nuove critiche alle concezioni platoniche:
-le idee e i numeri non posso essere costituiti di elementi in quanto quest’ultimi sono materiali e quindi potenziali;
-il bipolarismo uno-diade è stato introdotto per salvare contemporaneamente fenomeni e uno parmedineo;
-la molteplicità degli enti,non si deduce,essa è evidente;
-il principio dei platonici spiega la molteplicità solo ponendo una sola categoria;
-il non essere non inteso come falso ma come potenza spiega il divenire;
-il relativo e l’ineguale non sono né contrari né contraddittori dell’uno e dell’essere;
-non si spiega in che modo la diade sia in molti modi;
-i principi platonici non spiegano la molteplicità della sostanza ma solo quella numerica.
Si torna a criticare l’ammissione dei numeri come sostanze separate:
-sono sostantificazione degli universali;
– se i numeri fossero separati ,non si spiegherebbe come mai le loro caratteristiche siano negli enti sensibili;
Si criticano i pitagorici che erigono a sostanza i limiti dei corpi e si passa ad esaminare il rapporto fra i vari generi di realtà sovrasensibili:
– Speusippo spezza la realtà in vari episodi staccati come una cattiva tragedia;
– Senocrate evita alcuni problemi ma cade in altri come dai numeri-idee possano derivare le grandezze;
– viene affermata l’assurdità della generazione degli enti eterni.
Dopo altre critiche a Senocrate e ai platonici si esamina il rapporto fra uno e bene:il bene è uno dei due principi ovvero nasce in un momento successivo?
A ciò che è primo ,eterno e autosufficiente in sommo grado appartiene in quanto bene l’autosufficienza,quindi il bene appartiene al principio.
Conclusa la questione del rapporto fra principi e bene con ultima critica a Speusippo colpevole di avere una visione erronea dei principi degli esseri e quindi anche dei rapporti fra essi e il bene,si respingono tutte le ipotesi di Speusippo di derivazione dei numeri dai principi e di derivazione degli enti sensibili dai numeri:
-viene derisa la tesi pitagorica di derivazione del bene dalla semplice mescolanza secondo i numeri;
-la mescolanza non può aver luogo per moltiplicazione ma per somma(nella moltiplicazione le parti devono essere della stessa specie cosa che non accade nella moltiplicazione);
-pur partecipando tutte le cose del numero,questo non può portare a dire che i numeri siano causa;
-la corrispondenza fra numeri e cose è spesso accidentale sicché altra deve essere la causa delle cose;
-molte delle corrispondenza fra numeri e cose sono semplicemente analogie,non si basano su principi fondativi;
-i numeri ideali non sono neppure causa formale delle consonanze musicali perché i suoi di esse sono più simili in quanto differenti ai numeri matematici.
I numeri insomma non sono né separati dalle cose né principi di essi.
Ricapitando i risultati ottenuti in questi ultimi libri delle metafisica si deve affermare:
-i numeri non sono né immanenti alle cose né separati dalle cose bensì separabili con l’astrazione,enti di ragione che esistono in potenza nelle cose e in atto nella mente umana;
-tutti i capisaldi del platonismo(uno,numeri separati,diade,idee) vengono confutanti con argomentazioni aggrovigliate ,capziose ed esasperate:Aristotele è così preso dal desiderio di far polemica e di distanziarsi dal platonismo che arriva a fraintendere e a deformare molti principi platonici ignorando i punti in comune fra aristotelismo e platonismo;
-il bene appartiene al principio in quanto sostanza autosufficiente e non ha ad uno sviluppo successivo.
Niccolò Bonetti
Bibliografia
Metafisica ,Aristotele,Bompiani

Riflessioni critiche sull’etica kantiana

ottobre 11, 2009

Con la problematica enorme ella costruzione di un’etica condivisa si è dovuto scontrare anche Kant. Egli ha dedicato alcuni testi fondamentali al problema morale ma esso è una preoccupazione che affiora anche in altre opere e che appare essere il tema fondamentale della speculazione filosofica di Kant. Basandomi su alcune sue riflessioni, è mia intenzione portare alla luce una debolezza che secondo me affligge l’etica kantiana: il concetto di umanità.
Nel corpus kantiano questo concetto è molto presente ed assume generalmente due significati. Il primo s’identifica con la natura razionale dell’uomo, esemplificato dalla seguente famosa formula del’imperativo categorico: <> (Fond. metaf. dei costumi, II) Il secondo significa invece : <> (Critica del Giud. §60)
È su entrambi i significati di umanità che Kant costruisce gran parte della sua etica. In particolare, nel primo caso, il significato è oggetto del sentimento del rispetto verso gli uomini. Tale sentimento è molto complesso all’interno del pensiero kantiano: nella seconda Critica il rispetto è un sentimento a priori nei confronti della legge morale e può essere visto come <> (Crit. Rag. Prat. I, I, cap.III) Tralasciando l’aspetto squisitamente metateorico che Kant affronta in quest’opera e spostandoci invece nella pratica morale, il sentimento del rispetto è principalmente quello che si deve ad ogni individuo: <> (Metaf. dei costumi, Dottrina degli elementi dell’etica, I, I, §11) se si prosegue la lettura ci si accorgerà che sulla base del sentimento del rispetto verso l’umanità in sé e negli altri Kant definisce tutti i doveri pratici dell’uomo: la coltivazione delle perfezioni naturali e morali, il dovere di amore verso tutti gli uomini, il dovere di beneficenza, gratitudine, di simpatia universale, etc. Viceversa, tutte le degradazioni del comportamento morale sono dovute al mancato rispetto verso tale umanità.
È chiaro che qui Kant sta edificando un’etica razionalista sul concetto di umanità. Si potrebbe dire che l’origine di tale concetto risiede in una sorta di estensione del principio di umanità a tutti gli esseri razionali: <> (Relig. nei limiti della sola Rag. I, §1) Kant sta qui tentando di motivare l’estensione dell’amor di sé verso gli altri rifacendosi alla sua concezione di umanità per cui si sforza di dimostrare che ciò che noi amiamo di noi stessi è proprio quell’umanità riscontrabile in tutti gli altri. Tuttavia, secondo me, è legittimo chiedersi se tale concetto di umanità non abbia davvero alcun bisogno di dimostrazione. Anzitutto è difficile darlo per scontato sulla base del sentimento del rispetto; il sentimento del rispetto verso l’umanità rischia di trasformarsi nell’indebita estensione di un’affezione certamente riscontrabile in ogni uomo (l’egoismo) ma che non può essere trasferita così razionalmente agli altri. Inoltre, distinguere l’uomo morale dall’immorale sulla base di una costruzione teorica meramente personale (il rispetto per l’umanità) appare un’operazione non meno “tirannica” di quella di certi pensatori cristiani del Medioevo: la distinzione tra l’uomo buono e quello cattivo viene a farsi solo relativamente alla fede nel Dio del Vangelo: è buono chi vi crede, è irrimediabilmente “cattivo” chi non ci crede. Kant laicizza questa procedura sostituendo a Dio il rispetto per l’umanità che alla fine non è altro che un “aver fede” nella moralità degli altri in quanto “umani”. Il risultato è, a mio parere, una geniale ma artificiosa costruzione di cui è possibile condividere alcune idee, ma che ha fondamenta fideistiche e quindi comunque non razionali. L’irruento filosofo Paul Feyerabend così scriveva: <> (Dialogo sul metodo) Feyerabend si rifà qui ad una concezione irrimediabilmente “individuale” di cosa sia morale e cosa no, per cui ciò che è giusto fare è possibile deciderlo solo caso per caso. Manca qui chiaramente quello che è il test di universalizzazione voluto da Kant per evitare una morale soggettivistica, e dunque non è questo il piano giusto per affrontare la lettura di Kant. Tuttavia, anche dal lato dell’universalità il problema filosofico sui casi singoli si pone comunque come ben spiega Habermas: << Sotto un altro aspetto, tale esigenza potrebbe essere troppo restrittivo perché può avere un senso il fare oggetto di un discorso pratico anche norme d’azione non morali, il cui ambito di validità sia socialmente e spazio-temporalmente specificato e sottoporle a una prova di universalizzazione relativizzata alla cerchia di persone coinvolte. >> (Etica del discorso, III, II, §4) Ma anche qui la prova di universalizzazione si basa sulla fiducia che gli esseri umani siano accomunati da quel sentimento del rispetto dovuti all’universalità dell’umanità, concetti di cui non esiste alcuna prova conclusiva.

I.Kant, Critica del giudizio, Laterza
I.Kant, La religione nei limiti della sola ragione, Laterza
I. Kant, Metafisica dei costumi, Bompiani
I.Kant, Fondamenti della metafisica dei costumi, Laterza
I.Kant, Critica della ragion pratica, Tea
I.Kant, Critica del Giudizio, Laterza
P.Feyerabend, Dialogo sul metodo, Laterza
J.Habermas, Etica del discorso, Laterza

Luca Ferrari

La virtualizzazione della società

ottobre 5, 2009

La questione che qui si espone è a mio parere sottovalutata,nella sua portata e nel suo influsso, dall’intero campo delle scienze umane: filosofia, sociologia e politologia.
La nozione di virtuale si estende platealmente in svariati campi della nostra esperienza, seppur inconsapevolmente. Pensiamo solo al fatto che le care vecchie lettere sono state sostituite dalle fredde e distaccate e-mail. La comunicazione via chat o sms è, de facto, la forma dominante del comunicare. L’apparato sensibile del linguaggio, l’incrocio di sguardi e la “carnalità” del rapporto interpersonale è stata rimessa esclusivamente nel lavoro, luogo della fatica e del negotium par exellence. Impossibile, infatti, in ambito lavorativo, confrontarsi dialetticamente in un arco temporale libero e incondizionato. Questo meccanismo produce una cappa gassosa sopra le coscienze individuali e rende praticamente impossibile la rivolta, il pensiero libero e l’azione disinteressata. Il riposo e lo svago hanno preso il posto dell’otium, del lavoro intellettuale e creativo. Il divertissment, la distrazione in sé e per sé, offusca le intelligenze razionali, riducendo lo sviluppo dell’intelletto a mero ideale vuoto, a passatempo. Il potere conosce bene questa logica, poiché è la sua logica. Virtualizzare la società significa creare una patina sulle cose, un velo di maya che non si può squarciare, perché, incredibilmente, è un velo virtuale. Il mondo si presenta allora come teatro,ma con una trama già scritta, che non lascia spazio alla casualità e alla possibilità di uscire di scena.
Come marionette sognanti ci muoviamo in un universo che è in realtà un pluriverso di mondi virtuali. L’essere è nell’apparire, si sente dir spesso. In realtà l’essere è finito con il divenire l’assenza, l’effimero, l’aleatorio. Incredibile paradosso per cui l’essere si svuota sminuzzando la totalità e facendone poltiglia. In un simile pianeta, gli abitanti non potranno che essere a loro volta cittadini virtuali, soltanto ipotizzati, specchio di qualcosa che si situa nell’etere dell’ideale. Corpi fisici, fatti di carne e sangue, non-persone. La personalità è infatti soltanto concretezza dell’essere, determinazione positiva, pneuma come soffio vivificante. Nel deserto del virtuale, la ribellione politica e la relativa coscienza di essa sono nascoste in anfratti invisibili.
Che società è una società virtuale? E’ un mondo liquido, che si riavvolge su di sé come un nastro. Il virtuale demolisce ogni forma di progettualità, quindi di futuro.
Combattere la tirannia del virtuale è pura illusione; come un don quijote attacchiamo mulini a vento talmente sproporzionati alla vista da sembrare irreali. Non sorprende allora la totale rassegnazione civile, la percezione di una intrinseca necessità dell’accadere, anche laddove esso sia tragedia, dramma e male comune.
Il manifesto del Big Brother pensato da Orwell è davanti ai nostri occhi e senza
Avere nessuna concretezza sensibile. Esso è un Simulacro mentale, un flatus vocis, un semplice suono che corrisponde ad una parola che risuona come la più reale di tutte: Impossibilità dell’essere, assoluta assenza.
Scrivere sul virtuale è un’impresa titanica poiché il linguaggio utilizzato non può che valere analogicamente; infatti la virtualità è l’a-logos, il non-pensiero, l’indicibile, l’irrappresentabile. Siamo tutti piegati a questo status quo, forse senza volerlo.
La virtualizzazione della società e del mondo è un processo ancora in evoluzione, sul quale mi sono permesso di fare alcune congetture. L’inevitabile processo ha un solo, magnifico avversario: il pensiero. La riflessione con la sua facoltà di produrre azioni e condotte di comportamento tramite l’approccio critico al reale, è realissimo. Per ora.
Fabio Elemento

Kant e l’ideale regolativo come senso del filosofare a 228 anni dalla pubblicazione della “Critica della ragion pura”

settembre 28, 2009

Sono passati 228 anni dalla prima edizione della Critica della ragion pura, l’opera che ha inserito Immanuel Kant tra i pensatori che hanno modificato l’evoluzione dell’intera storia della cultura.
Nonostante l’arco temporale che ci distanzia dalla stesura degli scritti del filosofo di Konigsberg appaia sconfinato, l’attualità del pensiero kantiano si mostra puntualmente in svariati ambiti del sapere. Non mi soffermerò sull’etica kantiana e sul suo impressionante influsso teorico, né tantomeno sulle pagine vibranti della “Critica del Giudizio”.
Il mio modesto tentativo è di dimostrare che quel che Kant definisce come uso regolativo delle idee (trascendentali) della Ragione, lungi dall’essere una riflessione contingente e contestuale, è piuttosto un possibile senso del filosofare. Nell’appendice alla Dialettica Trascendentale il nostro filosofo ci segnala che i risultati teoretici dimostrati dalla dialettica, ovvero che le idee trascendentali, allorché assumono come reale ed oggettivamente dimostrabile il loro contenuto, travalicano del tutto il limite del sensibile e dell’esibizione fenomenica, generando soltanto antinomie irresolubili. Il progetto di una psicologia razionale e di una cosmologia razionale, così come quello di una teologia razionale, perdono del tutto il loro valore scientifico. La nuova metafisica fondata e strutturata secondo il modello della scienza, che tenta di imitare, distrugge la pretesa arrogante e dialettica (sofistica) di un bisogno naturale – quello del raggiungimento di totalità e di fuoriuscita dal ristretto campo dei fenomeni – che si è trasformato in autoinganno della Ragione.
Nonostante l’impossibilità di attribuire un uso costitutivo alle idee trascendentali, queste ultime mantengono un fondamentale ruolo epistemico. Kant infatti tiene a precisare che la dialettica trascendentale non ha negato tout court il valore di tali idee,ma soltanto la loro pretesa costitutiva. L’uso costitutivo diviene uso regolativo, ipotetico (in opposizione ad un uso apodittico) e problematico. Kant non si limita a questo. Ognuna delle tre idee della Ragione ha uno spazio preciso entro i limiti di questo orientamento regolativo. Perché però queste idee non hanno diritto né legittimità dal punto di vista costitutivo? Dobbiamo fare un passo indietro e rivolgere la nostra attenzione alla Dialettica Trascendentale. E’ qui infatti che Kant pone in atto la sua rigorosa analisi concettuale, che attraverso le quattro antinomie delegittima un ipotetico ruolo teoretico-costitutivo delle idee trascendentali. Procediamo per gradi ed analizziamo, escludendo il problema della causalità secondo libertà, le conclusioni, o meglio, i risultati a cui giunge Kant tramite lo sviluppo di tali antinomie. Esse dimostrano come la Ragione si trovi di fronte all’impossibilità di decidere, di prendere posizione, poiché tanto la tesi quanto l’antitesi sembrano convincenti e ragionevoli. Nella prima antinomia, quella cosmologica, la tesi afferma che il Mondo (la totalità dei fenomeni) è chiuso entro limiti spaziali e ha un cominciamento nel tempo. L’antitesi che il mondo è invece infinito sia rispetto allo spazio che rispetto al tempo. Se affermassimo la tesi ci troveremmo nella condizione di dover pensare il mondo, in quanto ha un inizio e un confine spaziale, come una
cosa in sé. Ciò vorrebbe dire in effetti fare del mondo un oggetto d’esperienza “concluso”. Ma questo collima invece con l’evidenza empirica per cui non si da mai un’unica apprensione del mondo. E’ tipico soltanto dei fenomeni che possono essere soggetti all’apprensione dell’ Einbildungskfrat – dell’immaginazione come facoltà di esibire entro precisi confini sensoriali – possedere un correlato noumenico, peraltro inconoscibile. Neanche l’antitesi è però ammissibile.
Non si da infatti, per definizione, un apprensione dell’Infinito, soprattutto rispetto al mondo come campo di fenomeni che di volta in volta si succedono e vengono ordinati dall’Intelletto che coadiuva la sensibilità.
Il Mondo, dunque, non è un oggetto reale, non esiste un’intuizione che permetta l’apprensione totale di esso,ma soltanto un’idea con valore ipotetico.
Lo stesso procedimento avviene per la psicologia razionale. Kant definisce paralogisma l’errore filosofico per cui l’anima viene pensata come sostanza, quando invece essa è piuttosto una funzione trascendentale che connette le rappresentazioni sotto un unico orizzonte coscienziale.
La seconda antinomia stabilisce che non è possibile un regressus ad infinitum che colga la struttura ultima della realtà. Non potremmo mai stabilire dunque se nel Mondo tutto sia semplice e non ci sia nulla di composto, o se piuttosto sia vero il contrario. Quindi non c’è possibilità, sul piano teoretico, di riconoscere la necessità di pensare l’anima come sostanza semplice.
Ciò vale anche per la teologia razionale. Supporre che vi sia una prova definitiva e necessaria, una dimostrazione di un Essere sommo, è vana presunzione, destinata a fallire. Nessuna delle cosiddette prove dell’esistenza di Dio sono realmente prove che scrivono la parola fine sulla questione.
La tesi è smentita. D’altro canto, anche sostenere la totale assenza di un Essere supremo si palesa come una posizione insostenibile. Un essere sommo e necessario che spieghi le contingenze come accidenti di esso, è infatti indispensabile per non crollare nel paradosso di un “contingente assoluto” che non abbia un Essere che ne sta a capo. La ragione si trova di nuovo di fronte al suo drammatico abisso.
Eppure, lo dicevamo, queste idee non vengono affatto da Kant private di qualsiasi valore filosofico.
Il loro valore, oltre che problematico ed ipotetico, è euristico. Anche qui occorre procedere gradualmente. La problematicità dell’uso regolativo delle idee trascendentali sta nel loro carattere incerto e inevaso. Nonostante ciò, esse sono ipotesi indispensabili per procedere sul cammino della scienza. La ragione infatti, che richiede a gran voce la Totalità, ha una pretesa assolutamente legittima. Non soltanto legittimo, ma persino doveroso è il compito a cui l’immaginazione si “piega” (come ben spiegato da Kant nell’analitica del sublime), cioè quello di cercare l’unità e la totalità del sapere. Questo compito è un preciso dovere del filosofo e dello scienziato, tuttavia tale “missione” resta proibitiva. In altri termini, è fondamentale riconoscere il carattere zetetico della conoscenza razionale: essa è un cammino che procede senza arrestarsi mai, senza giungere a conclusione. Il mondo inteso come totalità dei fenomeni diviene così una regola che il filosofo deve seguire se non vuole rinunciare del tutto all’unità sistematica dei fenomeni.
Anche l’anima ha una funzione regolativa. Non più il centro unificatore, formale e “vuoto” dell’Ich Denke, bensì l’idea che esista una sostanza semplice che rappresenta la totalità dei fenomeni interni.
Se non avessimo quest’ideale regolativo, ogni fenomeno interno apparirebbe inspiegabile nella sua caducità e immediatezza. Occorre un focus immaginarius, come lo chiama Kant.
L’essere sommo, Dio, sembra non essere affatto necessario in una Natura che procede secondo leggi deterministiche e perfettamente indagabili senza ammettere nessun deus ex machina esterno ad essa. Ammettere Dio vorrebbe dire dunque privare di autonomia la Natura, e ammettere al tempo stesso che vi sia una causalità extra-sensibile ed extra-fisica? Non sarebbe questo il dio-tappabuchi, così come lo definisce Bonhoeffer?
In verità anche l’essere sommo è un fondamentale ideale regolativo. Non contemplarlo significherebbe privare la totalità dei fenomeni in generale di un modello euristico semplice e ragionevole a cui tutti darebbero credito, e che sarebbe così riassumibile: esiste un Sommo Essere necessario che rende tutti i fenomeni una grande unità, permettendo così di pensarli come rapportabili ad un unicum.
Il valore euristico di tali idee è leggibile nell’intera storia della scienza. Sono molteplici le idee che, pur non essendo dimostrabili e pur senza avere un referente effettivo, sono assolutamente imprescindibili per poter pensare la scienza come un sistema il cui sapere culmini nell’Unità e nella totalità che la natura della Ragione esprime come esigenza. Kant lo ribadisce con fermezza.
La vecchia metafisica iperfisica e dogmatica, con la sua volontà assurda di slegarsi completamente dal terreno empirico è sorpassata da una metafisica critica pensabile come orientamento regolativo. Non penso che Vahininger abbia ragione nel ritenere la “filosofia del come se” un mero ideale euristico. Oltre a questo vi è precisamente quell’esigenza di unità sistematica e finalizzata all’armonia della Ragione che, al riparo da qualsiasi esaltazione mistica, coglie in modo del tutto peculiare le sue idee più alte. La forma del filosofare sta proprio in questo orientamento regolativo senza cui il filosofo, e l’essere umano in genere, si troverebbe perduto nell’abisso.

Bibliografia:
Critica della ragion Pura, Laterza, Roma-Bari, 2005
Hoffe O., Immanuel Kant, Il Mulino, Bologna, 2002

Le dottrine non scritte di Platone

settembre 9, 2009

Una delle questioni più dibattute dagli studiosi di Platone attualmente è quella delle cosiddette “dottrine non scritte” cioè non contenute nelle opere a noi arrivate.
Secondo la tesi tradizionale,il cui maggiore esponente è stato Friedrich Schleiermacher lo scritto è l’espressione più piena del pensiero di Platone e poiché noi possediamo tutti gli scritti di Platone è possibile ricavare da essi tutto il suo pensiero.
Questa tesi si è rilevato insostenibile per diverse ragioni.
Prima di tutto Platone nel Fedro dice esplicitamente che il filosofo non mette per iscritto le cose di maggior valore  e conferma ciò largamente nella Lettera VII, affermando che su ciò che abbraccia l’intero  e sulle cose più grandi  ossia sui principi supremi di tutta la realtà  non ha voluto scrivere e ha desiderato che nessuno scrivesse.
Uno scritto su tali questioni sarebbe stato di danno per i più,che avrebbero creduto erroneamente di comprendere ciò che è superiore alle loro capacità di comprensione,e inutile invece per coloro che erano all’altezza di capirlo ,poiché la verità emerge solo da una costante applicazione e da una comunione di vita e di ricerca fra chi insegna e chi impara e consistendo in brevissime proposizioni non richiede sforzi mnemonici tali da richiedere che venga messa per iscritto.
Inoltre esiste una ricca tradizione indiretta che attesta l’esistenza di queste dottrine non scritte e riferisce i contenuti principali :in primis il primo,il tredicesimo e il quattordicesimo libro della Metafisica di Aristotele.
Ma in cosa consisterebbero queste dottrine non scritte?
Esse riguardano principalmente un piano superiore a quello delle idee e concernono in primis due principi fondamentali: l’Uno e la Diade indeterminata (detta anche “grande e piccolo“) come spiega Aristotele: “Essendo quindi le idee cause delle altre cose, Platone ritenne che gli elementi costitutivi delle idee fossero gli elementi di tutti gli esseri. Come elemento materiale delle idee, egli poneva il grande e piccolo e come causa formale l’Uno: infatti riteneva che le idee e i numeri derivassero per partecipazione del grande e piccolo all’Uno.” (Aristotele, Metafisica A, 6.)
Anche Simplicio afferma nel commentario alla fisica di Aristotele lo stesso concetto:”Alessandro dice:“ Secondo Platone, i principi di tutte le cose e delle Idee medesime sono l’uno e la dualità indeterminata, che egli chiamava grande e piccolo”. Ma si potrebbe apprendere questo anche da Speusippo e da Senocrate e dagli altri che assistettero al corso Intorno al bene di Platone, e dicono che egli fece uso di questi principi”.
Ma cosa intendeva Platone per Uno e Diade?
L’Uno rappresenta l’unità,il limite,il determinante ed è definito dal commento del Parmenide di Proclo nella traduzione di Guglielmo di Moerbeke come “melius ente”.
La Diade invece è principio e radice della molteplicità degli enti ed è concepita come dualità di grande e piccolo in quanto è tendenza all’infinitamente grande e all’infinitamente piccolo.
L’azione dell’Uno sulla Diade è di de-limitazione,de-finizione,de-terminatazione dell’indefinito e dell’indeterminato; l’essere quindi ,essendo il prodotto dell’azione di questi due principi ,è una sintesi di unità e molteplicità,limite e illimitato e per usare un linguaggio aristotelico di forma e di materia.
Questa unità nella molteplicità caratterizza l’essere a tutti i suoi livelli sia a livello intellegibile che sensibile.                                                                                      Altra questione ancora più complessa è il rapporto fra numeri e idee: prima di tutto sarà opportuno sgombrare il campo da alcuni possibili equivoci.
Fra idee e numeri c’è una stretta connessione ma non un’identificazione ontologica totale e ciascun’idea non si riduce ad un particolare numero.
Inoltre bisogna tener presente che la dottrina platonica non può essere interpretata sulla base del concetto moderno di numero intero che esprime una determinata quantità quanto piuttosto invece su quella greca di numero come rapporto fra grandezze.
Fatte queste doverose precisazioni per evitare possibili fraintendimenti in chiave pitagorica si può passare a delineare il rapporto fra numeri ideali e idee.
Intanto i numeri ideali sono numeri metafisici,non matematici,sono le essenze dei numeri matematici e perciò non sono suscettibili di operazioni aritmetiche.
Essi rappresentano in forma originaria la struttura sintetica della realtà come unità nella molteplicità.
Poiché ciascun’idea è collocata in una precisa posizione nel mondo intellegibile secondo il minore o maggior grado di universalità e secondo la minore o maggiore forma di rapporti che essa ha con le altre idee,è possibile ,mediante la dialettica ,esprimere questa trama di rapporti numericamente cioè tramite i numeri ideali.
In questo modo però si pone un nuovo problema cioè che posto ricoprano le grandezze matematiche e geometriche “non ideali”cioè quelli adoperati dalle due suddette scienze.
La risposta si trova sempre nel primo libro della Metafisica:essi occupano una posizione intermedia fra idee ed enti sensibili ,sono eterni e immobili come le idee e i numeri ideali ma ce ne sono molti della stessa specie come gli enti sensibili.
Queste sono in sintesi le “dottrine non scritte”di Platone, sarebbe interessante mostrare i complessi rapporti fra esse e dialoghi ma questo esulerebbe dalla trattazione che mi ero preposto di fare.

Niccolò Bonetti

Bibliografia

Giovanni Reale,Platone e l’Accademia antica ,Bompiani,2004

Il ruolo e la figura del Filosofo tra antico e moderno

agosto 27, 2009

 

La figura del filosofo, e il suo ruolo, sin dai tempi di quello che viene considerato per convenzione “il primo Filosofo”, Talete, si distinguono nettamente da tutti gli altri ruoli professionali, poiché il Filosofo non è un lavoratore (che produce ricchezza),la Filosofia non è un mestiere,ma è una forma d’esistenza,un modo d’essere nel Mondo.

Ciò ha da sempre suscitato tra le masse ilarità e sospetto,misto a una morbosa curiosità verso queste strane figure che riflettono sul senso dell’essere e delle cose.

Talete, di cui si diceva, almeno secondo la testimonianza platonica osservava gli astri con la testa rivolta all’insù, e non si accorse di un pozzo dinanzi a sé, suscitando le risa di una serva.

Il Filosofo come colui che specula e non si accorge di ciò che capita è, anche dal punto di vista della storia delle idee,cioè dal punto di vista della Filosofia che parla su di sé, la prima opinione che abbiamo della figura del Sapiente. Tutto immerso nel pensiero,ma poco attento alla quotidianità e alla concretezza della vita.

Pitagora utilizzò una bella immagine per descrivere l’esistenza teoretica: egli paragonava la vita alle feste di Olimpia, dove alcuni si recavano per affari,altri per gareggiare, altri per divertirsi, e infine alcuni soltanto per vedere ciò che accadeva con apparente distacco. Questi ultimi,spettatori disinteressati, sono i filosofi. Il filosofo cioè non si mescola con gli affaristi né con coloro che vivono la vita come semplice piacere-gioco,non è preoccupato dagli affanni di costoro,ma è disinteressato rispetto a tutto ciò. Il disinteresse è una categoria tipica del filosofo,ed è proprio ciò che lo ha reso tanto strano agli occhi al Mondo. Lo spettatore tuttavia è l’unico tra gli uomini descritti a poter vedere e capire ciò che accade davvero. Gli altri sono presi dagli interessi materiali, si distraggono, o partecipano al gioco senza poterne uscire. Solo il filosofo ha la capacità e la possibilità di “tirarsi fuori” per contemplare la Realtà autentica.

Il più celebre filosofo della Storia è probabilmente Socrate. Egli utilizzava tre metafore per descriversi e per descrivere la sua filosofia: il tafano,la levatrice e la torpedine (quest’ultima in realtà gliela affibbiò Platone). Le tre metafora rappresentano tre categorie originarie del filosofare e del ruolo del filosofo. Il tafano è un moscone, e Socrate si pensava come un fastidio insetto che pungolava l’Uomo,spingendolo a riflettere. La filosofia avrebbe quindi il compito di pungolo intellettuale, di messa in discussione delle certezze, di risveglio dal torpore culturale e dai pregiudizi. La Levatrice, cioè quella che oggi chiameremmo l’ostetrica (Fenarete, la madre di Socrate lo era) rappresenta invece l’arte maiuetica, ovvero la determinante missione della filosofia che permette di partorire da sé la propria verità.

La torpedine, infine, indica il carattere brusco della filosofia che getta nello sconforto,poiché mistifica, tutto sottopone al dubbio e alla ricerca. Ci si sente allora come elettrizzati.

In generale, nel mondo antico,il filosofo è visto come il Sapiente,il ricercatore della verità, il Maestro di saggezza che conduce ad una vita fondata sul Bene. Ciò è vero almeno fino al Medioevo, anche se la filosofia diviene Professorale, e ridisegna così il proprio ruolo. La filosofia si insegna non più in ristretti circoli, tra gli aristocratici, ma assume il ruolo fondamentale di istruire e di pensare la Fede.

Il Professore rimarrà il ruolo storico del Filosofo,fino ai giorni nostri. La filosofia si può insegnare,anzi si DEVE insegnare per rendere la società più equa,più umana.

Nel Rinascimento il filosofo diviene l’erudito, il conoscitore di molteplici principi e concetti.

Nel Razionalismo secentesco,il filosofo va a braccetto con lo scienziato. Leibniz e Cartesio sono filosofi-scienziati,e non potrebbero essere l’uno senza l’altro, poiché la filosofia possiede ora il compito di incrementare la conoscenza scientifica dimostrando per via logico-razionale le proprie tesi. La filosofia viene pensata quindi come scienza, anzi come la scienza per eccellenza,che procede con metodo esatto al pari delle altre.

Ma il filosofo è stato e sarà sempre anche il martire del Libero Pensiero, il Campione della Laicità. Si pensi a Spinoza e Bruno, per citare due figure tipiche.

Per il filosofo la libertà di pensiero è come l’aria, egli non può vivere senza pensare, e rifiuta la possibilità che qualcuno blocchi il suo pensiero. Il Filosofo vuol essere dominato soltanto dalla propria coscienza.

Il Filosofo Illuminista radicalizza quest’aspetto, ponendosi come il distruttore delle certezze tradizionali, il Rivoluzionario, colui che sottopone ogni cosa al vaglio della Ragione.

Quest’immagine del filosofo come uomo d’azione sembra contraddire quanto detto all’inizio,ma la contraddizione è solo apparente: proprio perché erudito, proprio perché sveglio, cioè cosciente dei principi che governano tutte le cose, egli sa agire meglio di chiunque altro e può creare le condizioni affinché la res publica cambi forma, si strutturi con nuove regole.

Husserl definì il filosofo come funzionario dell’Umanità. In effetti il pensatore ha sempre ragionato come se fosse lo Spirito stesso a riflettere su di sé, sentendosi investito di un compito sovraumano, quello di portare a compimento la natura razionale dell’Uomo,così da favorire l’Umanità nel sviluppo morale e civile.

Ma oggi che ruolo ha il filosofo e come viene valutato dai contemporanei?

Certamente come Intellettuale, più o meno “impegnato”. Persistono i luoghi comuni del filosofo perdigiorno, che non produce nulla e che non fa che teorizzare dando poca importanza alla praxis. Ma come ben mostra Foucault nella sua “Ermeneutica del soggetto”, la cura di sé di cui parla la filosofia è cura spirituale ed esistenziale, quindi pratica.

Oggi è molto complicato far sentire la propria voce,anche per il filosofo. Innumerevoli problemi affliggono le nostre esistenze e nessuno sembra avere il potere per modificare le cose. Oggi la filosofia deve rigenerarsi e rivedere il proprio ruolo. Non più saggezza, non più sapienza,ma guida per il domani, per il Rinnovamento morale e civile di questo Mondo fatto a pezzi dal nichilismo, dal relativismo, dai dis-valori e dalla comunicazione “condizionata”.

Fabio Elemento