La virtualizzazione della società

La questione che qui si espone è a mio parere sottovalutata,nella sua portata e nel suo influsso, dall’intero campo delle scienze umane: filosofia, sociologia e politologia.
La nozione di virtuale si estende platealmente in svariati campi della nostra esperienza, seppur inconsapevolmente. Pensiamo solo al fatto che le care vecchie lettere sono state sostituite dalle fredde e distaccate e-mail. La comunicazione via chat o sms è, de facto, la forma dominante del comunicare. L’apparato sensibile del linguaggio, l’incrocio di sguardi e la “carnalità” del rapporto interpersonale è stata rimessa esclusivamente nel lavoro, luogo della fatica e del negotium par exellence. Impossibile, infatti, in ambito lavorativo, confrontarsi dialetticamente in un arco temporale libero e incondizionato. Questo meccanismo produce una cappa gassosa sopra le coscienze individuali e rende praticamente impossibile la rivolta, il pensiero libero e l’azione disinteressata. Il riposo e lo svago hanno preso il posto dell’otium, del lavoro intellettuale e creativo. Il divertissment, la distrazione in sé e per sé, offusca le intelligenze razionali, riducendo lo sviluppo dell’intelletto a mero ideale vuoto, a passatempo. Il potere conosce bene questa logica, poiché è la sua logica. Virtualizzare la società significa creare una patina sulle cose, un velo di maya che non si può squarciare, perché, incredibilmente, è un velo virtuale. Il mondo si presenta allora come teatro,ma con una trama già scritta, che non lascia spazio alla casualità e alla possibilità di uscire di scena.
Come marionette sognanti ci muoviamo in un universo che è in realtà un pluriverso di mondi virtuali. L’essere è nell’apparire, si sente dir spesso. In realtà l’essere è finito con il divenire l’assenza, l’effimero, l’aleatorio. Incredibile paradosso per cui l’essere si svuota sminuzzando la totalità e facendone poltiglia. In un simile pianeta, gli abitanti non potranno che essere a loro volta cittadini virtuali, soltanto ipotizzati, specchio di qualcosa che si situa nell’etere dell’ideale. Corpi fisici, fatti di carne e sangue, non-persone. La personalità è infatti soltanto concretezza dell’essere, determinazione positiva, pneuma come soffio vivificante. Nel deserto del virtuale, la ribellione politica e la relativa coscienza di essa sono nascoste in anfratti invisibili.
Che società è una società virtuale? E’ un mondo liquido, che si riavvolge su di sé come un nastro. Il virtuale demolisce ogni forma di progettualità, quindi di futuro.
Combattere la tirannia del virtuale è pura illusione; come un don quijote attacchiamo mulini a vento talmente sproporzionati alla vista da sembrare irreali. Non sorprende allora la totale rassegnazione civile, la percezione di una intrinseca necessità dell’accadere, anche laddove esso sia tragedia, dramma e male comune.
Il manifesto del Big Brother pensato da Orwell è davanti ai nostri occhi e senza
Avere nessuna concretezza sensibile. Esso è un Simulacro mentale, un flatus vocis, un semplice suono che corrisponde ad una parola che risuona come la più reale di tutte: Impossibilità dell’essere, assoluta assenza.
Scrivere sul virtuale è un’impresa titanica poiché il linguaggio utilizzato non può che valere analogicamente; infatti la virtualità è l’a-logos, il non-pensiero, l’indicibile, l’irrappresentabile. Siamo tutti piegati a questo status quo, forse senza volerlo.
La virtualizzazione della società e del mondo è un processo ancora in evoluzione, sul quale mi sono permesso di fare alcune congetture. L’inevitabile processo ha un solo, magnifico avversario: il pensiero. La riflessione con la sua facoltà di produrre azioni e condotte di comportamento tramite l’approccio critico al reale, è realissimo. Per ora.
Fabio Elemento

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